di Francesco Greco - Nell’”Albero della Vita”, il mosaico della Cattedrale di Otranto, il monaco Pantaleone da Casole, spalmando tutta la sua conoscenza, affrescò storie e leggende, credenze e superstizioni, sete di conoscenza spinta ai confini della stregoneria, eroismi e paure ancestrali. L’eterna lotta fra il Bene e il Male. il Medioevo si sviluppò anche fra questi denominatori culturali ossificati sino all’archetipo. Mille anni di lotte per il potere e sangue per afferrarlo e conservarlo, di intrighi di corte e opportunismi, di passioni divoranti, di cavalieri insonni e audaci, di donne soggiogate che se rivendicavano autonomia di pensiero erano rinchiuse dietro le grate di un monastero. Il luogo comune che lo vuole un periodo storico privo di pathos: al contrario, lì affondano le radici del nostro presente, perché il Medioevo dell’umanità, se dobbiamo anche tradurlo in oscurantismo e violenza dell’uomo sull’uomo, non è mai finito, anzi, all’epoca dell’android, siamo immersi nella sua riproposizione e rappresentazione grottesca, patologica: il neo-Medioevo riproposto in tutte le infinite facce.
Chi, per sciatteria o vuoti culturali bignamini, non sapesse nulla di quei mille anni che pulsano dentro e intorno a noi, ritrova la loro anima profonda e l’essenza nel sublime, bellissimo “L’oscuro mosaico”, di Ornella Albanese, Leggereditore, Roma 2012, pp. 448, € 10. Un romanzo in cui la scrittrice ripropone alcuni personaggi del precedente (2011) “L’anello di ferro” (stesso editore), confermandosi maestra del far rivivere un contesto storico, un tempo, un’epoca. In questo nuovo romanzo lo fa scavando nei sentimenti e innestando il mistero (la morte orrenda di una giovane contadina, Basilia “solida e lavoratrice” mentre era intenta a zappare e Fenicia, una donna che “apriva la sua porta a tutti”, a cui qualcuno ha tagliato la treccia nera.
Nel mosaico da cui parte la narratrice pugliese “c’è abbastanza da far inorridire un bravo cristiano. Questo monaco (…) dice che rappresenta tutto il bene e tutto il male della terra. Io l’ho visto e credetemi se vi dico che il male ghiaccia il sangue nelle vene (…) Ci sono draghi alati, belve feroci che divorano uomini, creature infernali (…) Forse descrive mostri che ha visto…“. La storia si svolge in Terra d’Otranto nel XII secolo, sotto il dominio dei Normanni nel Sud Italia, la cui corte è a Palermo. Sul trono, suo malgrado, perché il potere lo sottrae alle mollezze e la sensualità, re Guglielmo “capace di crudeltà inaspettate, ma anche di generosità…” che dopo il “sacco” di Bari (“ho salvato la cattedrale”) lo chiameranno il Malo. I complotti dei baroni sono all’ordine del giorno, ma anche il salto sul carro del vincitore. Quando fallivano restava l’esilio (Tancredi), o la forca, nel migliore dei casi l’umiliazione della riproposizione del giuramento di fedeltà a cui si sottoponevano per continuare a godere della benevolenza del sovrano, e soprattutto di beni e lussi immensi in feudi sconfinati.
Livio è un bambino dal passato misterioso che nasconde al mondo ma non alle leggende portate dalle strofe dei musici zingari. Ha sangue nobile nelle vene, ma è lievemente zoppo e ha visto cose il cui ricordo lo tormenta. Affamato del mondo, fugge da Tarsia (“è questo che fanno gli uomini sulla terra: seguono il vento o si oppongono a esso”), aiutato da Yusuf Hanifa, un cavaliere e medico detto il Saraceno che “aveva fatto della razionalità il suo metodo di vita” (personaggio che annuncia i Lumi che verranno 5 secoli dopo) aggregandosi a un gruppo di nomadi (“gli uomini cantavano per strada e le donne rubavano nelle case”) guidato dalla Vecchia, megera che governa il gruppo con carisma e potere.
Albanese padroneggia la storia e la scrittura, essenziale e compatta, sbozza alla grande la psicologia dei personaggi (dalla baronessa Blanche che non riesce a dare un erede al barone Gualtieri, all’amante occitano Guillem de Saintonge, ladro di versi, dall’accidioso Grifo che vive con lo zio in una torre a Rufina la nomade dal grande seno, passando per il locandiere Aurelio, le dame Doralicia e Fiorenza, suor Agnese, il mosaicista donna Sara (“Vi prego di non tradirmi…”), fino a far annusare l’aria che si respirò del Medioevo, le credenze popolari, i deliqui delle donne, gli afrori delle passioni delle nate bene e delle ragazze povere costrette a prendere i voti per un po’ di pane, come delle nobili rinchiuse nei monasteri per essersi opposte a scelte fatte da altri quasi sempre per ragion di Stato (anche la badessa Emma madre di un futuro re).
Non diremo al lettore chi e perché ha ucciso con zanne e artigli le ragazze per avere il loro sangue, se Rubino, l’alchimista e guaritore, trova la pietra filosofale incalzato dal tempo che gli sfugge e perché il Grifo frequenta con trasporto la biblioteca di Casole, né la sorte della bella Mirta, figlia del barone Gualtieri promessa sposa al dissoluto Boemondo e Livio detto il Nero che entrato nelle grazie di Guglielmo a cui ha offerto da mercenario i suoi servigi e che diviene feudatario di Castrum, Hydruntum e dintorni e torna per badare alla sete di potere dei baroni, la predisposizione al complotto, ma deve difendersi dall’accusa di duplice omicidio e nascondersi in una grotta.
Documentandosi su un periodo della Storia banalizzato, scavando nei più segreti interstizi, Ornella Albanese ha costruito il suo mosaico col passo delle grandi narratrici (fa pensare a Jane Eyre o a Jane Austen), a tratti sulfureo come il “Nome della Rosa”. Un romanzo vivido, evocativo (par di vedere i capelli neri di Livio, i riccioli biondi e la carnagione diafana di Mirta), pregno di sentimenti forti che lacerano gli uomini portandoli sull’orlo del burrone e che tiene avvinti sino all’ultima riga. Se il Medioevo è stato questo, viverci dev’essere stata la più eccitante delle avventure.
Chi, per sciatteria o vuoti culturali bignamini, non sapesse nulla di quei mille anni che pulsano dentro e intorno a noi, ritrova la loro anima profonda e l’essenza nel sublime, bellissimo “L’oscuro mosaico”, di Ornella Albanese, Leggereditore, Roma 2012, pp. 448, € 10. Un romanzo in cui la scrittrice ripropone alcuni personaggi del precedente (2011) “L’anello di ferro” (stesso editore), confermandosi maestra del far rivivere un contesto storico, un tempo, un’epoca. In questo nuovo romanzo lo fa scavando nei sentimenti e innestando il mistero (la morte orrenda di una giovane contadina, Basilia “solida e lavoratrice” mentre era intenta a zappare e Fenicia, una donna che “apriva la sua porta a tutti”, a cui qualcuno ha tagliato la treccia nera.
Nel mosaico da cui parte la narratrice pugliese “c’è abbastanza da far inorridire un bravo cristiano. Questo monaco (…) dice che rappresenta tutto il bene e tutto il male della terra. Io l’ho visto e credetemi se vi dico che il male ghiaccia il sangue nelle vene (…) Ci sono draghi alati, belve feroci che divorano uomini, creature infernali (…) Forse descrive mostri che ha visto…“. La storia si svolge in Terra d’Otranto nel XII secolo, sotto il dominio dei Normanni nel Sud Italia, la cui corte è a Palermo. Sul trono, suo malgrado, perché il potere lo sottrae alle mollezze e la sensualità, re Guglielmo “capace di crudeltà inaspettate, ma anche di generosità…” che dopo il “sacco” di Bari (“ho salvato la cattedrale”) lo chiameranno il Malo. I complotti dei baroni sono all’ordine del giorno, ma anche il salto sul carro del vincitore. Quando fallivano restava l’esilio (Tancredi), o la forca, nel migliore dei casi l’umiliazione della riproposizione del giuramento di fedeltà a cui si sottoponevano per continuare a godere della benevolenza del sovrano, e soprattutto di beni e lussi immensi in feudi sconfinati.
Livio è un bambino dal passato misterioso che nasconde al mondo ma non alle leggende portate dalle strofe dei musici zingari. Ha sangue nobile nelle vene, ma è lievemente zoppo e ha visto cose il cui ricordo lo tormenta. Affamato del mondo, fugge da Tarsia (“è questo che fanno gli uomini sulla terra: seguono il vento o si oppongono a esso”), aiutato da Yusuf Hanifa, un cavaliere e medico detto il Saraceno che “aveva fatto della razionalità il suo metodo di vita” (personaggio che annuncia i Lumi che verranno 5 secoli dopo) aggregandosi a un gruppo di nomadi (“gli uomini cantavano per strada e le donne rubavano nelle case”) guidato dalla Vecchia, megera che governa il gruppo con carisma e potere.
Albanese padroneggia la storia e la scrittura, essenziale e compatta, sbozza alla grande la psicologia dei personaggi (dalla baronessa Blanche che non riesce a dare un erede al barone Gualtieri, all’amante occitano Guillem de Saintonge, ladro di versi, dall’accidioso Grifo che vive con lo zio in una torre a Rufina la nomade dal grande seno, passando per il locandiere Aurelio, le dame Doralicia e Fiorenza, suor Agnese, il mosaicista donna Sara (“Vi prego di non tradirmi…”), fino a far annusare l’aria che si respirò del Medioevo, le credenze popolari, i deliqui delle donne, gli afrori delle passioni delle nate bene e delle ragazze povere costrette a prendere i voti per un po’ di pane, come delle nobili rinchiuse nei monasteri per essersi opposte a scelte fatte da altri quasi sempre per ragion di Stato (anche la badessa Emma madre di un futuro re).
Non diremo al lettore chi e perché ha ucciso con zanne e artigli le ragazze per avere il loro sangue, se Rubino, l’alchimista e guaritore, trova la pietra filosofale incalzato dal tempo che gli sfugge e perché il Grifo frequenta con trasporto la biblioteca di Casole, né la sorte della bella Mirta, figlia del barone Gualtieri promessa sposa al dissoluto Boemondo e Livio detto il Nero che entrato nelle grazie di Guglielmo a cui ha offerto da mercenario i suoi servigi e che diviene feudatario di Castrum, Hydruntum e dintorni e torna per badare alla sete di potere dei baroni, la predisposizione al complotto, ma deve difendersi dall’accusa di duplice omicidio e nascondersi in una grotta.
Documentandosi su un periodo della Storia banalizzato, scavando nei più segreti interstizi, Ornella Albanese ha costruito il suo mosaico col passo delle grandi narratrici (fa pensare a Jane Eyre o a Jane Austen), a tratti sulfureo come il “Nome della Rosa”. Un romanzo vivido, evocativo (par di vedere i capelli neri di Livio, i riccioli biondi e la carnagione diafana di Mirta), pregno di sentimenti forti che lacerano gli uomini portandoli sull’orlo del burrone e che tiene avvinti sino all’ultima riga. Se il Medioevo è stato questo, viverci dev’essere stata la più eccitante delle avventure.