Mattmark 1965: “Mi sono salvato per miracolo...”
di Francesco Greco - Angelo Torsello oggi è un tranquillo pensionato, vive in Puglia (Alessano, Lecce) dedicandosi alla famiglia e ai nipotini. Mezzo secolo fa era emigrato a Mattmark, Svizzera, Cantone Vallese: lì la notte la temperatura scendeva anche a - 35. Un percorso di vita comune a centinaia di migliaia di meridionali e di pugliesi oggi di terza e quarta generazione.
Quel 30 agosto, alle 5 e un quarto della sera, “Angiolino” scampò all'inferno per miracolo: “Dovevo lavorare nel turno successivo...”. E commosso, ha ricordato i compagni morti a un convegno sull'emigrazione. Resistette solo tre mesi e poi tornò a casa, segnato per sempre da quanto aveva visto e vissuto.
I morti furono 88, 2 erano donne (1000 gli operai sul cantiere). Seppelliti da oltre 2 milioni di metri cubi di fango e ghiaccio. La vita degli operai non contava nulla se i capi, alle pendici del ghiacciaio Allalin avevano costruito le baracche fredde, con l'igiene scarsa, la mensa, gli uffici del cantiere della ditta Elektro-Watt che dal giugno del 1960 stava costruendo la diga più grande d'Europa a ridosso del lago Mattmark.
I segnali che Allalin aveva mandato per giorni furono sottovalutati: pezzi di ghiaccio e slavine. Nella primavera del 1963 una valanga aveva travolto una mensa. Così la morte giunse a tradimento, col passo felpato. “Nessun rumore – ricordò Mario Vieleli, bellunese, che sopravvisse qualche ora – solo un vento terribile e i miei compagni volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato e la fine...”.
Nella Svizzera dei “verboten!”, gli “tschingg” (zingari) e “geshlossen italien” (non si affitta agli italiani).
Ci fu un processo, con 17 imputati, sei anni per l'istruttoria: tutti assolti (febbraio 1972). Beffa in appello: le famiglie dei morti condannate a pagare le spese processuali: non c'era un giudice a Berlino e manco a Sion. La diga fu poi inaugurata il 25 giugno 1969: fugacemente il presidente del cda della società idroelettrica si riferì alla sciagura di quattro prima che aveva “fortemente intaccato la gioiosa operatività del cantiere”. Una noia!
D'altronde, cosa ci si poteva aspettare? Il 2 settembre (cioè, tre giorni dopo), sul cantiere era apparso un cartello: “Mettere tutto in ordine e finire l'opera”. Etica del lavoro fra “Arbeit macht frei” e i laogai cinesi.
Toni Ricciardi ha appena dato alle stampe per Donzelli “Morire a Mattmark” (ottimamente recensito da Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera”), in cui ricostruisce la tragedia: “La catastrofe unì Nord e Sud: gli operai provenivano dalla provincia italiana, che ne fu protagonista...”.
Nell'estate mediterranea dei morti sui campi arsi dei pomodori e all'ombra dei vigneti, parlare di Mattmark (quando ancora non si era spenta l'eco del rogo di Marcinelle) significa ammettere a noi stessi e alle nostre coscienze torpide che mezzo secolo è passato invano sul fronte della sicurezza sul lavoro, che nel frattempo s'è fatto precario e flessibile (moderne forme di autolicenziamento), adattando l'uomo a oscuri disegni di capitalisti da ferriere e politici fuori dalla storia, e di testa. I primi per avidità di profitto, i secondi che avevano “venduto” gli operai italiani di cui ben sapevano le condizioni di lavoro (giornate di 16 ore, spesso anche la domenica, temperature rigidissime cui gli operai non erano abituati) e che poi vergognosamente si defilarono alle cerimonie pubbliche.
Niente sicurezza, tantomeno dignità. Sia per Marcinelle che per Mattmark (lo scrittore Dino Buzzati scrisse un toccante editoriale sul “Corriere della Sera, “L'amara favola”), solo per le insistenze dell'opinione pubblica il governo Moro (1965) e Segni (1956) chiesero alle autorità svizzere e belga di fare luce sulle tragedie: una pratica burocratica noiosa assai. Tanto tocca sempre ai figli dei poveri, il darwinismo sociale funziona a meraviglia.
Alle famiglie, oggi come allora, solito valzer di promesse di aiuti economici mai visti: è un fatto genetico. Che noia! Mezzo secolo di parole al vento. Eppure il “boom economico”, il “miracolo italiano” lo stavano costruendo anche loro. Quante Mattmark (morirono 56 italiani, 3 i pugliesi, tutti salentini: da Gagliano, Tiggiano e Ugento, e 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci, un apolide), Marcinelle e Nardò o Andria o Ginosa ci vorranno ancora per dare dignità all'uomo che la solo le braccia per guadagnarsi il pane amaro che si mette in bocca e sul tavolo ai suoi figli?
Emigrante d'origine calabrese, Domenico Mesiano vive a Sion, ha insegnato nella scuola italiana ed è stato dirigente della Uil. Da presidente del comitato “Mattmark 2015”, a fine mese coordinerà le manifestazioni per ricordare la tragedia. Per quel che serve... La prossima è già all'orizzonte. E' il sistema folle e assassino che dalla rivoluzione industriale a oggi abbiamo costruito. Ma, come cantava Pino Daniele, “nessuno se ne 'mporta”.
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