Corte europea, il caso Green e il diritto di voto dei detenuti

di Maria Teresa Lattarulo
I ricorrenti sono due cittadini britannici, Robert Green e M.T., che stavano entrambi scontando una condanna all’epoca sia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo nel 2009, sia delle elezioni politiche tenutesi nel 2010. Ciò aveva impedito loro di votare in quanto la sezione 3 della legge sulla rappresentanza del popolo del 1983 prevede una restrizione generalizzata per tutti i condannati alla detenzione, indipendentemente dalla durata della loro pena e indipendentemente dalla natura o della gravità del loro delitto e dalla loro situazione personale. Tale restrizione è stata estesa alle elezioni del Parlamento europeo dalla sezione 8 della legge sulle elezioni del Parlamento europeo del 2002. La normativa non è stata modificata nonostante la Corte ne avesse già rilevato la contrarietà alla Convenzione nel caso Hirst c. Regno Unito dell’ottobre 2005. La Corte ha esaminato il caso alla luce dell’art. 3 del Protocollo 1 dal quale la Corte europea ha ricavato il diritto di voto e di candidarsi alle elezioni. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che una esclusione automatica e generalizzata del diritto di voto dei detenuti indipendentemente dalla considerazione di tutte le circostanze di specie contrasti con la Convenzione.
Fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa vi è un’ampia divergenza di prassi adottate in materia: in diciotto paesi non vi è alcuna restrizione al diritto di voto dei detenuti, in tredici è vietato votare per tutti i detenuti e in dodici vi sono alcune limitazioni.
Coloro che propendono per il divieto di votare adducono le ragioni della prevenzione del crimine e della punizione del reo: ed invero i soggetti che hanno violato le regole fondamentali della società non dovrebbero poter partecipare, secondo costoro, alla formazione di quelle stesse regole.
Coloro che sono contrari a qualsiasi restrizione affermano che il diritto di voto è fondamentale per la democrazia e dovrebbe essere limitato solo per conseguire un obiettivo imperativo e fondamentale e che non vi è alcun collegamento logico tra il diniego del diritto di voto e l'obiettivo dichiarato di promuovere la responsabilità civica e il rispetto per la legge, in quanto non c'è prova alcuna che la privazione del diritto di voto prevenga il crimine o riabiliti i trasgressori; inoltre, limitando il diritto di voto dei detenuti lo Stato si priva di un mezzo significativo per insegnare loro i valori della democrazia e della responsabilità civica; infine, i divieti generalizzati del diritto di voto sono arbitrari in quanto non si collegano ai fatti e alle circostanze specifiche del singolo reato.
La situazione dell’ordinamento italiano appare non meno in contrasto con la Convenzione di quella britannica. Infatti i detenuti condannati ad una pena superiore a cinque anni sono colpiti dalla interdizione perpetua e generalizzata dai pubblici uffici che comporta automaticamente la perdita dell’elettorato attivo e passivo, mentre coloro che siano condannati ad una pena da tre a cinque anni sono colpiti, per cinque anni, dalla interdizione temporanea che comporta, per la sua durata e sempre automaticamente, la perdita dell’elettorato.
Inoltre, i detenuti che hanno il diritto di voto sono sottoposti a una normativa-capestro che prevede che il detenuto debba far sapere per tempo al Sindaco del Comune di residenza che intende votare nel luogo di reclusione e che, successivamente, il Comune di origine faccia pervenire comunicazione all’istituto penitenziario della avvenuta cancellazione (provvisoria) dalle liste elettorali, cui dovrà seguire la comunicazione al Comune di detenzione perché il detenuto sia iscritto nelle liste locali. Solo allora potrà essere allestito il seggio speciale per la raccolta del voto dei detenuti in carcere.

Per informazioni: studiolegalelattarulo@alice.it

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