L’eccidio dimenticato di San Giovanni Rotondo del 14 ottobre 1920
di Giuseppe Tamburrano
Con il saggio di Antonio Tedesco, Quella voce fucilata nella piazza, la verità sull’eccidio del 14 ottobre 1920 di San Giovanni Rotondo è finalmente raggiunta. L’Autore l’ha cercata e l’ha trovata consultando tutta la documentazione disponibile e dando credito all’ispettore di polizia Trani che, in quei tempi in cui già si faceva pesante e condizionante la pressione della reazione, svolse un’inchiesta scrupolosa ed obbiettiva.
Quella strage fu in parte un agguato e in parte una provocazione. La destra antisocialista – dominata dagli agrari – aveva deciso che in nessun caso i socialisti, che avevano vinto le elezioni, avrebbero esposto la loro bandiera sul balcone del Comune. I suoi esponenti, tra i quali il vice commissario di Pubblica Sicurezza Romano, noto per il suo carattere violento, erano in piazza per provocare la folla socialista inerme e festosa. E quando il corteo socialista, convinto dai suoi dirigenti a rinunciare all’esposizione della bandiera, stava per abbandonare la piazza i fomentatori passarono alla provocazione: svillaneggiarono, insultarono i socialisti che saggiamente ripiegavano; ma la saggezza diventò rabbia in qualcuno dei manifestanti che voleva tornare indietro mentre la folla si stava diradando. E i fucili puntati dei carabinieri spararono tutti insieme uccidendo e ferendo alle spalle povera gente che cercava di mettersi in salvo.
Questo sangue proletario ha scritto una delle prime pagine dell’avvento del fascismo. È una delle stragi più gravi e rivela in modo chiaro e brutale la natura originaria del fascismo: la reazione agraria (l’A. lo mette bene in luce). La cosa strana è che l’eccidio è ricordato poco nei libri di storia: forse perché, anche su questo argomento, il Sud è “discriminato” ed ha scarsa voce in capitolo.
Potrei aggiungere alla narrazione di Tedesco dettagli raccontatimi da mio padre, ma non muterei il quadro del lavoro che è preciso e contiene un giudizio inequivocabile sulle responsabilità.
Due parole sul sindaco Tamburrano, che era un “rivoluzionario” mite, alieno dalla violenza. Un autentico galantuomo come erano i socialisti allora. In un documento della Direzione della P.S., l’A. ha trovato un’annotazione su mio padre che è erronea (e l’A. la cita del resto solo per dovere di studioso). Vi si dice che «Tamburrano pur essendo anarchico astensionista, aveva ceduto a prendere parte alla lotta con la promessa della carica di sindaco». Le cose stavano diversamente. Mio padre diventò socialista durante gli anni del liceo a Chieti. Vi è una lettera, a mio giudizio molto bella perché rivela con quale animo giovani intellettuali si convertivano al socialismo e sposavano la causa dei contadini sfruttati. Ivanoe Bonomi ha raccontato di questi giovani nel suo Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia (Sestante, 1945): «Ed ecco, ad ogni giornata domenicale, uscire dalla città giovani studenti e giovani professionisti per propagandare il nuovo verbo nelle campagne. E spesso l’area del comizio era il sagrato davanti alla chiesa o l’aia del piccolo campo [...] Le folle contadine udivano stupefatte il figliuolo del loro padrone dimostrare sulla piazza l’iniquità della loro soggezione al padrone».
L’esempio più fulgido è quello di Giacomo Matteotti: attraente, giovane, figlio di ricchi agrari, con una sicura carriera forense e universitaria, “tradisce” la sua classe (che gliela farà pagare!) e sceglie di stare con l’altra parte perché «solo con loro – i contadini – mi sento libero». E l’elenco è infinito, da Turati a De Amicis. E mio padre (e Luigi Di Maggio, Merla, ecc.) fu uno di questi giovani professionisti che scelgono la causa giusta.
Mio padre era socialista, ma giovanissimo imbevuto di idealità anarchiche, poetiche non politiche; il suo autore preferito era, insieme a Carducci, l’anarchico Pietro Gori la cui “opera omnia” faceva bella mostra nella sua biblioteca (e ora nella mia). Ricordo i versi che mio padre mi recitava più spesso: «Cittadino del mondo guardo al sole – che scalda tutti gli uomini e le cose – esilio, patria non son che parole – nulla è straniero all’anime pensose».
Come ho detto, sposò la causa socialista durante il liceo a Chieti. Mia madre ha conservato la lettera nella quale mio padre le rivela la sua “vocazione”: «da tempo io sono, sono, sono... tremo a dirtelo, tremo e fremo ad un tempo, non ho la forza, la confessione è massima, suprema: sono socialista ribelle a ogni tirannia, ad ogni forma di ingiustizia e d’oppressione... molto forse dovrò soffrire per questi miei principi ribelli ed umanitari... ma che importa? Non temo neppure le catene della sbirraglia poliziesca, non temo la morte, no, per Te, santa Idea. Seguimi coi palpiti della stessa fede, dividi meco ogni gioia e ogni dolore... Sarai la mia compagna». (Si innamorarono giovanissimi: mia madre aveva tredici anni e mio padre sedici e furono uniti e fedeli fino alla morte). Quando mio padre sceglie il socialismo, al liceo, avrà avuto circa diciotto anni.
Con il saggio di Antonio Tedesco, Quella voce fucilata nella piazza, la verità sull’eccidio del 14 ottobre 1920 di San Giovanni Rotondo è finalmente raggiunta. L’Autore l’ha cercata e l’ha trovata consultando tutta la documentazione disponibile e dando credito all’ispettore di polizia Trani che, in quei tempi in cui già si faceva pesante e condizionante la pressione della reazione, svolse un’inchiesta scrupolosa ed obbiettiva.
Quella strage fu in parte un agguato e in parte una provocazione. La destra antisocialista – dominata dagli agrari – aveva deciso che in nessun caso i socialisti, che avevano vinto le elezioni, avrebbero esposto la loro bandiera sul balcone del Comune. I suoi esponenti, tra i quali il vice commissario di Pubblica Sicurezza Romano, noto per il suo carattere violento, erano in piazza per provocare la folla socialista inerme e festosa. E quando il corteo socialista, convinto dai suoi dirigenti a rinunciare all’esposizione della bandiera, stava per abbandonare la piazza i fomentatori passarono alla provocazione: svillaneggiarono, insultarono i socialisti che saggiamente ripiegavano; ma la saggezza diventò rabbia in qualcuno dei manifestanti che voleva tornare indietro mentre la folla si stava diradando. E i fucili puntati dei carabinieri spararono tutti insieme uccidendo e ferendo alle spalle povera gente che cercava di mettersi in salvo.
Questo sangue proletario ha scritto una delle prime pagine dell’avvento del fascismo. È una delle stragi più gravi e rivela in modo chiaro e brutale la natura originaria del fascismo: la reazione agraria (l’A. lo mette bene in luce). La cosa strana è che l’eccidio è ricordato poco nei libri di storia: forse perché, anche su questo argomento, il Sud è “discriminato” ed ha scarsa voce in capitolo.
Potrei aggiungere alla narrazione di Tedesco dettagli raccontatimi da mio padre, ma non muterei il quadro del lavoro che è preciso e contiene un giudizio inequivocabile sulle responsabilità.
Due parole sul sindaco Tamburrano, che era un “rivoluzionario” mite, alieno dalla violenza. Un autentico galantuomo come erano i socialisti allora. In un documento della Direzione della P.S., l’A. ha trovato un’annotazione su mio padre che è erronea (e l’A. la cita del resto solo per dovere di studioso). Vi si dice che «Tamburrano pur essendo anarchico astensionista, aveva ceduto a prendere parte alla lotta con la promessa della carica di sindaco». Le cose stavano diversamente. Mio padre diventò socialista durante gli anni del liceo a Chieti. Vi è una lettera, a mio giudizio molto bella perché rivela con quale animo giovani intellettuali si convertivano al socialismo e sposavano la causa dei contadini sfruttati. Ivanoe Bonomi ha raccontato di questi giovani nel suo Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia (Sestante, 1945): «Ed ecco, ad ogni giornata domenicale, uscire dalla città giovani studenti e giovani professionisti per propagandare il nuovo verbo nelle campagne. E spesso l’area del comizio era il sagrato davanti alla chiesa o l’aia del piccolo campo [...] Le folle contadine udivano stupefatte il figliuolo del loro padrone dimostrare sulla piazza l’iniquità della loro soggezione al padrone».
L’esempio più fulgido è quello di Giacomo Matteotti: attraente, giovane, figlio di ricchi agrari, con una sicura carriera forense e universitaria, “tradisce” la sua classe (che gliela farà pagare!) e sceglie di stare con l’altra parte perché «solo con loro – i contadini – mi sento libero». E l’elenco è infinito, da Turati a De Amicis. E mio padre (e Luigi Di Maggio, Merla, ecc.) fu uno di questi giovani professionisti che scelgono la causa giusta.
Mio padre era socialista, ma giovanissimo imbevuto di idealità anarchiche, poetiche non politiche; il suo autore preferito era, insieme a Carducci, l’anarchico Pietro Gori la cui “opera omnia” faceva bella mostra nella sua biblioteca (e ora nella mia). Ricordo i versi che mio padre mi recitava più spesso: «Cittadino del mondo guardo al sole – che scalda tutti gli uomini e le cose – esilio, patria non son che parole – nulla è straniero all’anime pensose».
Come ho detto, sposò la causa socialista durante il liceo a Chieti. Mia madre ha conservato la lettera nella quale mio padre le rivela la sua “vocazione”: «da tempo io sono, sono, sono... tremo a dirtelo, tremo e fremo ad un tempo, non ho la forza, la confessione è massima, suprema: sono socialista ribelle a ogni tirannia, ad ogni forma di ingiustizia e d’oppressione... molto forse dovrò soffrire per questi miei principi ribelli ed umanitari... ma che importa? Non temo neppure le catene della sbirraglia poliziesca, non temo la morte, no, per Te, santa Idea. Seguimi coi palpiti della stessa fede, dividi meco ogni gioia e ogni dolore... Sarai la mia compagna». (Si innamorarono giovanissimi: mia madre aveva tredici anni e mio padre sedici e furono uniti e fedeli fino alla morte). Quando mio padre sceglie il socialismo, al liceo, avrà avuto circa diciotto anni.
Tags:
Libri