di Luigi Bramato
Durante l’inverno romano del 1958, la macchina da presa di Mario Monicelli, terminata la fortunata collaborazione con l’amico regista Steno, tesseva la trama di una nuova commedia. Nella miseria di un’Italia ancora lontana dall’euforia del boom economico, una sgangherata banda di scassinatori preparava un colpo sensazionale: il furto al Monte di Pietà , in via delle Madonne. A capo di quella brigata, il regista toscano aveva chiamato un giovane attore di teatro, Vittorio Gassman, nei panni dell’ex pugile Peppe Baiocchi. Insieme a lui Renato Salvatori, Marcello Mastroianni, Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e il maestro Totò, uniti da una sorte avversa e grottesca in un’esilarante sequela di malfatte. “I soliti Ignoti”, questo il titolo della celebre pellicola, inaugurava la stagione della commedia all’italiana e lanciava l’allora trentaseienne Vittorio Gassman verso una brillante carriera cinematografica. A lui è dedicato il lungometraggio diretto da Giancarlo Scarchilli “Vittorio racconta Gassman”, presentato in anteprima alla 67 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e andato in onda ieri sera presso il multi cinema Galleria di Bari. Un ritratto inedito del grande mattatore e della sua rocambolesca esistenza, nel ricordo di quanti lo hanno conosciuto, amato, adorato. Prima di allora, Gassman aveva già messo al servizio del cinema la sua maschera di attore drammatico. Registi come Mario Soldati, Alberto Luttuada, Luigi Comencini e Mario Camerini lo avevano diretto in più di trenta film senza però, eccezion fatta per “Riso Amaro”, consentirgli il successo. Aveva un fisico aitante, era giovane, bello ma con una faccia piuttosto dura. Il ruolo di antipatico e antagonista gli riusciva piuttosto bene, e a lui, del resto, poco importava di come il cinema lo adoperasse. Si considerava totalmente impegnato nella sua carriera teatrale. Una carriera o, per meglio dire, un’avventura, intrapresa durante gli anni dell’ultima guerra presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, insieme agli amici Luciano Salce, Luigi Squarzina, Luciano Lucignani, Vittorio Caprioli, Adolfo Celi. Carmelo Bene, in una nota polemica, lo definiva un accademico. Ed era vero. Ma non nel senso museale, marmoreo e forforale del termine. Gassman credeva nella ricerca e nella stima della tecnica, dell’artigianato e, finanche, dell’apprendistato che ha a che fare col teatro come per qualsiasi altra forma di arte. In un periodo in cui il teatro italiano sfavillava di geniali registi e di interpreti di grande talento con un grande pubblico appassionato, Gassman trionfava portando in scena l’”Edipo Re” di Sofocle, l’”Oreste” di Alfieri, le “Baccanti” di Euripide, i “Persiani” di Eschilo, l’ ”Amleto” e l’ “Otello” di Shakespeare, l’ “Adelchi” di Manzoni, il “Marziano a Roma” di Flaiano e “Affabulazione” di Pasolini. Sul palcoscenico egli non aveva rivali. Il pubblico era attratto dalla sua baldanza istrionica. Nulla potevano i virtuosismi fonetici dei grandi classici contro la sua straordinaria capacità mnemonica. O Cesare, insomma, o nessuno. E se il teatro lo applaudiva, il cinema lo corteggiava. La diffidenza per la macchina da presa, quello snobismo di attore classico, si tramutava in complicità , interesse e, in alcuni casi, affezione. Come nel caso de “Il Sorpasso”, “La grande Guerra”, “Profumo di donna”, “Brancaleone” e “La famiglia”. Nel periodo compreso tra la fine degli anni settanta e per l’intero arco degli ottanta, Gassman vive un momento professionale molto intenso: scrive e dirige i suoi lavori, allestisce a Firenze la Bottega teatrale, vola in America da Robert Altman, recita sui palcoscenici di Francia e Spagna, consegna alle stampe la sua autobiografia, interpreta più di venticinque film, alcuni di grandissimo successo, vince tre David di Donatello e due Nastri d’Argento. Ma il suo volto, lontano dal clamore e dal palcoscenico, iniziava a rivelare i segni di un malessere profondo, spesso trascurato: velato nella sua barba da Edipo, dietro il fumo delle sue sigarette, un Gassman ormai maturo gettava la maschera della sua fierezza, scoprendo la fragilità dell’uomo e il male demoniaco che lo avrebbe logorato per lunghi anni: la depressione. Dopo quegli anni, benché segnati da un ritorno periodico della malattia, il mattatore riprendeva a lavorare. Intensificando, anzi, la natura dei suoi impegni, com’è il caso del mostruoso spettacolo intitolato “Ulisse e la balena bianca”, basato sul celebre romanzo di Hermann Melville e impreziosito da alcuni testi poetici, come il Canto XXVI dell’Inferno di Dante. È impossibile dare un’idea dello spettacolo da lui costruito, diretto e interpretato: allestita nel porto di Genova, in occasione delle Colombiadi, la scena consisteva in una chiatta coperta lunga oltre 40 metri, ideata da Renzo Piano, che ospitava pubblico e attori. Una gran folla di musicanti, baleniere, funi, canti, chiasso e rum si inebriava nelle note arcane e girovaghe di Nicola Piovani. Il successo fu enorme. Ovunque approdava, dalla Francia alla Spagna, dall’Italia al Sud America, quella ciurma riscuoteva consensi e applausi di pubblico e di critica. Era il suo ultimo, grande spettacolo.
Durante l’inverno romano del 1958, la macchina da presa di Mario Monicelli, terminata la fortunata collaborazione con l’amico regista Steno, tesseva la trama di una nuova commedia. Nella miseria di un’Italia ancora lontana dall’euforia del boom economico, una sgangherata banda di scassinatori preparava un colpo sensazionale: il furto al Monte di Pietà , in via delle Madonne. A capo di quella brigata, il regista toscano aveva chiamato un giovane attore di teatro, Vittorio Gassman, nei panni dell’ex pugile Peppe Baiocchi. Insieme a lui Renato Salvatori, Marcello Mastroianni, Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e il maestro Totò, uniti da una sorte avversa e grottesca in un’esilarante sequela di malfatte. “I soliti Ignoti”, questo il titolo della celebre pellicola, inaugurava la stagione della commedia all’italiana e lanciava l’allora trentaseienne Vittorio Gassman verso una brillante carriera cinematografica. A lui è dedicato il lungometraggio diretto da Giancarlo Scarchilli “Vittorio racconta Gassman”, presentato in anteprima alla 67 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e andato in onda ieri sera presso il multi cinema Galleria di Bari. Un ritratto inedito del grande mattatore e della sua rocambolesca esistenza, nel ricordo di quanti lo hanno conosciuto, amato, adorato. Prima di allora, Gassman aveva già messo al servizio del cinema la sua maschera di attore drammatico. Registi come Mario Soldati, Alberto Luttuada, Luigi Comencini e Mario Camerini lo avevano diretto in più di trenta film senza però, eccezion fatta per “Riso Amaro”, consentirgli il successo. Aveva un fisico aitante, era giovane, bello ma con una faccia piuttosto dura. Il ruolo di antipatico e antagonista gli riusciva piuttosto bene, e a lui, del resto, poco importava di come il cinema lo adoperasse. Si considerava totalmente impegnato nella sua carriera teatrale. Una carriera o, per meglio dire, un’avventura, intrapresa durante gli anni dell’ultima guerra presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, insieme agli amici Luciano Salce, Luigi Squarzina, Luciano Lucignani, Vittorio Caprioli, Adolfo Celi. Carmelo Bene, in una nota polemica, lo definiva un accademico. Ed era vero. Ma non nel senso museale, marmoreo e forforale del termine. Gassman credeva nella ricerca e nella stima della tecnica, dell’artigianato e, finanche, dell’apprendistato che ha a che fare col teatro come per qualsiasi altra forma di arte. In un periodo in cui il teatro italiano sfavillava di geniali registi e di interpreti di grande talento con un grande pubblico appassionato, Gassman trionfava portando in scena l’”Edipo Re” di Sofocle, l’”Oreste” di Alfieri, le “Baccanti” di Euripide, i “Persiani” di Eschilo, l’ ”Amleto” e l’ “Otello” di Shakespeare, l’ “Adelchi” di Manzoni, il “Marziano a Roma” di Flaiano e “Affabulazione” di Pasolini. Sul palcoscenico egli non aveva rivali. Il pubblico era attratto dalla sua baldanza istrionica. Nulla potevano i virtuosismi fonetici dei grandi classici contro la sua straordinaria capacità mnemonica. O Cesare, insomma, o nessuno. E se il teatro lo applaudiva, il cinema lo corteggiava. La diffidenza per la macchina da presa, quello snobismo di attore classico, si tramutava in complicità , interesse e, in alcuni casi, affezione. Come nel caso de “Il Sorpasso”, “La grande Guerra”, “Profumo di donna”, “Brancaleone” e “La famiglia”. Nel periodo compreso tra la fine degli anni settanta e per l’intero arco degli ottanta, Gassman vive un momento professionale molto intenso: scrive e dirige i suoi lavori, allestisce a Firenze la Bottega teatrale, vola in America da Robert Altman, recita sui palcoscenici di Francia e Spagna, consegna alle stampe la sua autobiografia, interpreta più di venticinque film, alcuni di grandissimo successo, vince tre David di Donatello e due Nastri d’Argento. Ma il suo volto, lontano dal clamore e dal palcoscenico, iniziava a rivelare i segni di un malessere profondo, spesso trascurato: velato nella sua barba da Edipo, dietro il fumo delle sue sigarette, un Gassman ormai maturo gettava la maschera della sua fierezza, scoprendo la fragilità dell’uomo e il male demoniaco che lo avrebbe logorato per lunghi anni: la depressione. Dopo quegli anni, benché segnati da un ritorno periodico della malattia, il mattatore riprendeva a lavorare. Intensificando, anzi, la natura dei suoi impegni, com’è il caso del mostruoso spettacolo intitolato “Ulisse e la balena bianca”, basato sul celebre romanzo di Hermann Melville e impreziosito da alcuni testi poetici, come il Canto XXVI dell’Inferno di Dante. È impossibile dare un’idea dello spettacolo da lui costruito, diretto e interpretato: allestita nel porto di Genova, in occasione delle Colombiadi, la scena consisteva in una chiatta coperta lunga oltre 40 metri, ideata da Renzo Piano, che ospitava pubblico e attori. Una gran folla di musicanti, baleniere, funi, canti, chiasso e rum si inebriava nelle note arcane e girovaghe di Nicola Piovani. Il successo fu enorme. Ovunque approdava, dalla Francia alla Spagna, dall’Italia al Sud America, quella ciurma riscuoteva consensi e applausi di pubblico e di critica. Era il suo ultimo, grande spettacolo.