di Maria Teresa Lattarulo
Una recente condanna della Corte Europea nei confronti dell’Italia ha ampliato la tutela degli immigrati irregolari estendendo alla permanenza nei centri di identificazione ed espulsione (c.i.e.) le stesse garanzie previste per la detenzione in carcere.
Nella decisione Seferovic c. Italia dell’8 febbraio 2011 veniva in considerazione il caso di una donna di etnia Rom proveniente dalla Bosnia-Erzegovina che viveva a Roma senza documenti nel campo nomadi Casilino 900. All’epoca del conflitto nella ex-Iugoslavia la donna aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiata, ma la sua domanda era stata respinta per irregolarità formali. Nel settembre 2003 la signora Seferovic aveva dato alla luce un bambino il quale però, dopo alcuni mesi, si era ammalato ed era stato quindi portato in ospedale, dove era successivamente morto. In tale occasione, la donna era stata accompagnata alla polizia perché trovata senza documenti ed era stata tradotta in un c.i.e. in attesa di essere espulsa. Il Tribunale di Roma aveva dapprima confermato la misura, ma, successivamente, ne aveva ordinato il rilascio perché, in base all’art. 19 del Testo Unico in materia di immigrazione del 1998, non può essere disposta l’espulsione di una donna prima del decorso di sei mesi dalla data del parto, indipendentemente dal fatto che il figlio sia in vita. A questo punto la signora Seferovic aveva cercato di ottenere una riparazione per l’illegittimo trattenimento nel c.i.e., ma, nel nostro ordinamento, può essere riparata solo la illegittima privazione di libertà personale a seguito di un processo penale. Investita di un ricorso sulla questione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione alla ricorrente ed ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 n. 5 della Convenzione in quanto, nel nostro ordinamento, non è prevista una riparazione per illegittimo trattenimento in un c.i.e.
E’ nota la polemica che ha accompagnato l’istituzione dei c.i.e. Considerati, nella migliore delle ipotesi, “non-luoghi” – secondo la nota definizione dell’antropologo francese Marc Augé -, essi assumono spesso il carattere di veri e propri centri di detenzione per l’espiazione di un unico reato: quello di essere extracomunitario. Sebbene la Corte non abbia ritenuto illegittimi i c.i.e. in sé e per sé, essa però ha chiarito inequivocabilmente come la permanenza in tali centri sia una restrizione di libertà e non un “soggiorno” in un luogo di ospitalità e ricovero, come spesso viene eufemisticamente definito.
Una recente condanna della Corte Europea nei confronti dell’Italia ha ampliato la tutela degli immigrati irregolari estendendo alla permanenza nei centri di identificazione ed espulsione (c.i.e.) le stesse garanzie previste per la detenzione in carcere.
Nella decisione Seferovic c. Italia dell’8 febbraio 2011 veniva in considerazione il caso di una donna di etnia Rom proveniente dalla Bosnia-Erzegovina che viveva a Roma senza documenti nel campo nomadi Casilino 900. All’epoca del conflitto nella ex-Iugoslavia la donna aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiata, ma la sua domanda era stata respinta per irregolarità formali. Nel settembre 2003 la signora Seferovic aveva dato alla luce un bambino il quale però, dopo alcuni mesi, si era ammalato ed era stato quindi portato in ospedale, dove era successivamente morto. In tale occasione, la donna era stata accompagnata alla polizia perché trovata senza documenti ed era stata tradotta in un c.i.e. in attesa di essere espulsa. Il Tribunale di Roma aveva dapprima confermato la misura, ma, successivamente, ne aveva ordinato il rilascio perché, in base all’art. 19 del Testo Unico in materia di immigrazione del 1998, non può essere disposta l’espulsione di una donna prima del decorso di sei mesi dalla data del parto, indipendentemente dal fatto che il figlio sia in vita. A questo punto la signora Seferovic aveva cercato di ottenere una riparazione per l’illegittimo trattenimento nel c.i.e., ma, nel nostro ordinamento, può essere riparata solo la illegittima privazione di libertà personale a seguito di un processo penale. Investita di un ricorso sulla questione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione alla ricorrente ed ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 n. 5 della Convenzione in quanto, nel nostro ordinamento, non è prevista una riparazione per illegittimo trattenimento in un c.i.e.
E’ nota la polemica che ha accompagnato l’istituzione dei c.i.e. Considerati, nella migliore delle ipotesi, “non-luoghi” – secondo la nota definizione dell’antropologo francese Marc Augé -, essi assumono spesso il carattere di veri e propri centri di detenzione per l’espiazione di un unico reato: quello di essere extracomunitario. Sebbene la Corte non abbia ritenuto illegittimi i c.i.e. in sé e per sé, essa però ha chiarito inequivocabilmente come la permanenza in tali centri sia una restrizione di libertà e non un “soggiorno” in un luogo di ospitalità e ricovero, come spesso viene eufemisticamente definito.