Scompare il giornalista Antonio Rossano: il Giornale di Puglia lo ricorda con la recensione della sua ultima opera

BARI. È scomparso il giornalista e scrittore Antonio Rossano (Adelfia 21.12.40 – Milano 30.3.2011). Un signor giornalista, un galantuomo, una persona cordiale e gentilissima, degna di ogni rispetto. Ha scritto molti saggi, ha ottenuto vari premi tra cui: Saint Vincent ’75, Campione d’Italia, Nuovo Mezzogiorno.
Ha scritto per molte case editrici (Levante, Cacucci, Dedalo, De Donato, Ecumenica, Laterza, Palomar, SugarCo, Progedit, La Nuova Italia).
Ha pubblicato con la casa editrice Levante: “I Cippecciotti”, “Io Flippy, e tu?”, “Mi lagnerò tacendo”, “Discorso in forse - omaggio a Giorgio Aldini”, scomparso anch’egli tre giorni fa, “Piccinni mi ha detto”, “In un tempo senza tempo”, “Poveri di passaggio”, “L’Italiano (ieri e oggi)”, l’ultimo suo libro.
Per tre lustri è stato docente a contratto all’Università di Bari, attualmente dirigeva il Master di giornalismo promosso dall’Ordine dei Giornalisti d’intesa con l’Ateneo barese.
Per ricordarlo degnamente pubblichiamo la recensione del suo ultimo libro “L’Italiano (ieri e oggi)” (Levante Editori).
Alla famiglia le condoglianze del Giornale di Puglia.


LA NOSTRA LINGUA TRA RICORDI E CONTAMINAZIONI

di Vittorio Polito. Per la “Bibliotechina di Tersite (Levante Editori), Antonio Rossano, con una lunga carriera di giornalista e di scrittore, ha pubblicato recentemente il volume “L’Italiano (ieri e oggi)”.
Il lettore sappia subito che Rossano si è servito, per questo libro, dell’indispensabile aiuto di importanti testi specialistici, in particolare di un prezioso vocabolario dei sinonimi, che ha ancora tanta vitalità: il Pietro Fanfani del 1865.
Non si tratta di un trattato su come studiare o insegnare la lingua italiana, ma una rassegna di centinaia di lemmi antichi e nuovi, diligentemente allineati alfabeticamente in un personale, divertito e, in qualche caso, malizioso dizionario della lingua italiana. L’autore descrive e discute in dieci schede una serie di vocaboli, ivi compresi quelli dialettali e gergali (politichese compreso), partendo dalle radici latine per finire alle contaminazioni degli anglismi e del linguaggio iper tecnologico.
E così si parte da “abbacare” (fantasticare con la mente sopra cose vane e senza proposito deliberato, ma con raziocinio), passando per “baciapile” (bigotto dal cervello corto del quale è bene non fidarsi), “dovere” (è quello che nessun altro ha voglia di fare), “paraguanto” dallo spagnolo ‘para guantos’ (ricompensa signorile data per nobili servigi a persone civili). Oggi si dirà ‘fatti una birra’. Non poteva mancare il nostro “Polpo” (che se è grande e cotto allesso, umetta il ventre e conforta lo stomaco). “Tangente” usato per “parte spettante, porzione”: è latinismo non bello, né necessario. Vallo a dire a certi appaltatori e/o assessori all’ingrasso.
Rossano descrive anche le voci dell’autarchia ricordando che il “neo purismo di Stato”, l’11 febbraio 1923 (inizio era fascista), vietò, con il decreto n. 352 l’eliminazione dal linguaggio ufficiale, dalle cronache, dai giornali, dalle insegne dei cinema, dai ritrovi e dai negozi, l’uso di parole straniere. Per coloro che non si fossero adeguati al divieto, era prevista “una tassa in misura aggravata”. E così un negozio genovese dal nome “Adams” si tramuta in Adamo, il negozio milanese “Sportman” diventa Sportivo, il “paletot” diventa cappotto, il “cachet” per il mal di testa fa effetto se si chiama cialdina. Insomma tutto è passato al setaccio della “italianizzazione”, anche i prodotti dell’industria nazionale devono essere preferiti e pubblicizzati secondo le nuove norme, anche se autarchici. Il poeta Trilussa così scrive dell’autarchia: “Appena che il droghiere/mise in mostra/il Vero insetticida nazionale/la mosca disse ‘Me farà più male/ma per lo meno/è produzione nostra’”.
Il volume presenta nella seconda parte “Prove di scrittura”, una serie di brevi racconti.
Non mancano i “Titoli di coda” attraverso i quali l’autore ringrazia coloro che prima di lui si sono interessati alla delicata materia, i lettori, gli autori che sono sfuggiti alla menzione, non per dispregio, ma per le manchevolezze della memoria, ed anche l’editore per il singolare coraggio di accettare di pubblicare il testo di cui si parla.
In copertina un pastello di Aurora Zehra Rizvi.

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