LECCE. Secondo la sentenza emessa il 7 aprile 2011 dalla quarta sezione penale della Cassazione che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” segnala, è contrario alle norme deontologiche, oltre che inutile, operare i malati terminali che, disposti a tutto, accettano di sottoporsi all’intervento per ottenere un improbabile beneficio alla qualità della vita.
La sentenza della Cassazione penale ha statuito che “Violano il codice deontologico i medici che sottopongono a interventi pazienti ‘inoperabili’ e afflitti da patologie che lasciano loro solo poco tempo di vita, anche nel caso in cui sia stato proprio il paziente a dare il suo consenso informato all'operazione”.
Soltanto la prescrizione ha salvato tre chirurghi dell'ospedale San Giovanni di Roma dopo la doppia condanna per omicidio colposo in sede di merito che avevano operato, provocandone la morte, una donna di 43 anni che aveva solo 6 mesi di vita per un tumore al pancreas con metastasi diagnosticate e già diffuse ovunque.
La Suprema corte, ha infatti dichiarato per i tre medici l'estinzione del reato visto che sono passati più di sette anni e mezzo dal delitto. Secondo gli ermellini per i tre medici, infatti, non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei a integrare la prova evidente della loro innocenza, anzi: nelle sentenze di merito sono contenute valutazioni di segno diametralmente opposto, che condurrebbero all'accertamento della responsabilità dei professionisti.
La decisione di entrare comunque in sala operatoria rappresenta una violazione delle regole di prudenza che devono ispirare i professionisti che operano in scienza e coscienza che dovevano asternersi dal persistere in trattamenti da cui non si possa attendere un beneficio per la salute del malato.
La sentenza della Cassazione penale ha statuito che “Violano il codice deontologico i medici che sottopongono a interventi pazienti ‘inoperabili’ e afflitti da patologie che lasciano loro solo poco tempo di vita, anche nel caso in cui sia stato proprio il paziente a dare il suo consenso informato all'operazione”.
Soltanto la prescrizione ha salvato tre chirurghi dell'ospedale San Giovanni di Roma dopo la doppia condanna per omicidio colposo in sede di merito che avevano operato, provocandone la morte, una donna di 43 anni che aveva solo 6 mesi di vita per un tumore al pancreas con metastasi diagnosticate e già diffuse ovunque.
La Suprema corte, ha infatti dichiarato per i tre medici l'estinzione del reato visto che sono passati più di sette anni e mezzo dal delitto. Secondo gli ermellini per i tre medici, infatti, non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei a integrare la prova evidente della loro innocenza, anzi: nelle sentenze di merito sono contenute valutazioni di segno diametralmente opposto, che condurrebbero all'accertamento della responsabilità dei professionisti.
La decisione di entrare comunque in sala operatoria rappresenta una violazione delle regole di prudenza che devono ispirare i professionisti che operano in scienza e coscienza che dovevano asternersi dal persistere in trattamenti da cui non si possa attendere un beneficio per la salute del malato.
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