di Vittorio Polito. Carla Marcato, docente di Linguistica Italiana all’Università di Udine, scrive nella sua pubblicazione “Dialetto, dialetti e italiano” (Il Mulino), dell’origine della parola “dialetto”, sottolineando come il termine «Ã¨ un cultismo nella tradizione linguistica italiana, mentre le sue remote origini risalgono al greco ‘diálektos’ che significa dapprima ‘colloquio’, conversazione poi anche ‘lingua’, ‘lingua di un determinato popolo’; passato al latino, nelle forme ‘dialectos’ (alla greca) o ‘dialectus’, il vocabolo indica ‘parlata locale assunta a importanza letteraria’».
In relazione all’uso del dialetto, l’autrice sostiene che in Italia il dialetto va inteso come sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua nazionale, quindi un sistema che ha caratteri strutturali e una storia distinti rispetto a quelli della lingua italiana. La scrittura dialettale – e ciò si può osservare in qualsiasi area dialettale nazionale – è quanto mai varia per il fatto che nel tempo si sono proposte soluzioni grafiche diverse per rendere suoni particolari di ciascun dialetto.
La mancanza di grafie dialettali unitarie, finalizzata a rendere la fonetica dei dialetti, sembra dovuta al fatto che i dialetti non sono stati interessati dai processi di normalizzazione grafica, come avvenuto in qualche altra regione. Nel citato testo, ad esempio, si parla di tanti dialetti e di tante grammatiche ma del nostro dialetto, ad eccezione di un brevissimo cenno su quello arcaico che, secondo l’autrice, viene parlato nei quartieri dei pescatori (Bari vecchia), non c’è traccia. Di grammatiche, dizionari e autori baresi non se ne parla affatto. Mettere ordine o fissare regole e regolette e farle condividere è cosa assai difficile. Stessa cosa dicasi per il “Dizionario etimologico dei dialetti italiani” di M. Cortelazzo e C. Marcato” (UTET), nel quale c’è solo qualche cenno ai dialetti meridionali o pugliesi, ma nulla su quello barese. L’unico autore della provincia di Bari citato in bibliografia è Giovanni Colasuonno. Questo non vi dice nulla?
Le varietà dialettali presenti sono: abruzzese, brigasco, campano, corso, friulano, galloitalico, istrioto, ladino centrale, ladino veneto, laziale, ligure, ligure-piemontese, lombardo, lucano, lunigianese, marchigiano, molisano, piemontese, pugliese (nessun vocabolo barese), romagnolo, salentino, sardo, siciliano, ticinese, toscano, umbro, valdostano, veneto. Giudicate voi in quale considerazione è tenuta la nostra “parlata dialettale”.
Un vecchio proverbio barese recita: ‘La rà sce come la uè la fásce’ (La razza o raia, la prepari come ti pare e piace). La rà sce (razza o raja), è un pesce cartilagineo che si può preparare in vari modi. Anche per la lingua dialettale barese, sotto certi aspetti, è la stessa cosa, poiché ognuno la scrive come vuole e come crede, preferendo eventualmente un autore o un dizionario invece che un altro e, spesso, inventandosi il modo di scriverlo: c’è chi aggiunge due consonanti iniziali in taluni vocaboli: BBare, (Bari), nnanze (avanti), bbanne (banda), ffermà (fermare), o eliminando vocali in altri: kntènt (contento), abbnnà nz (abbondanza), ackmgghià t (coperto), cmmà tt (combattere), e così via. Per non parlare poi di fantomatici centri studi e accademie, presenti solo sulle carte e quindi di nessuna utilità .
Consultando, poi, alcuni calendari pubblicati in dialetto barese, ho notato una gran confusione sui contenuti e su come ognuno scrive il nostro vernacolo. Ho confrontato un po’ di vocaboli presenti sui calendari con alcuni dizionari attualmente presenti sul mercato. Dalla comparazione si evince che ciascuno degli autori, scrive a proprio piacimento ovvero secondo grammatiche o dizionari al quale personalmente si è ispirato, ma che non hanno alcuna ufficialità . Alcuni esempi: calendario diventa ‘calendarie’, ‘calannà rrie’, calannà rie’; gennaio: ‘gennà ie’, ‘gennà re’ (come Gennaro), ‘scennà re’; Francesco: ‘Frangische’, ‘Frangìscke’, ‘Brangische’; ‘Frangìske’, Giovanni: ‘Giuanne’, ‘Giuà nne’, ‘GGiuà nne’, Giacomo: ‘Giacheme’, ‘Già ggheme’, ‘Ggià ggheme’, Guglielmo: ‘Guglielme’, ‘Guglièlme’, ‘Ghegglièlme’; Leopoldo: ‘Leopolde’, ‘Diapòlde’; Nicandro: ‘Nicandre’, ‘Lecà ndre’; Filippo: ‘Felippe’, ‘Belìppe’; ‘Ferdinando’: ‘Ferdenande’, ‘Fredenà nde’; Luigi Gonzaga: ‘Luigi Conzaghe’, ‘Luìgge Chenzà che’; Leonardo: ‘Leonarde’, ‘Uanà rde’; Santi Pietro e Paolo: ‘S. Pitre e Paule’, ‘Sandre Pìite e PPà ule’; Pompeo: ‘Pompee’, ‘Bombè’; Bari: ‘Bare’, ‘BBare’, ‘Vare’; Eligio: ‘Eligie’, ‘Alìsce’. Quest’ultimo nome, come si può notare, qualcuno lo traduce esattamente con il nome dell’alice o acciuga, per cui se si dovesse dire, ad esempio, Eligio si mangia le alici, si tradurrebbe in dialetto ‘Alìsce se mange l’alìsce’(?). Insomma una gran confusione e, in certi casi, come si è visto, uno sperpero di consonanti alternato ad una economia di vocali. Il dialetto barese, come qualsiasi altro dialetto, può essere facile parlarlo, ma difficile scriverlo. Gli esempi sopra riportati ne sono la prova evidente.
Pertanto, quanto si pubblica nel nostro dialetto in fatto di poesie, testi, calendari, dizionari e grammatiche, va considerato solo ed esclusivamente un modo personale di scrivere che contribuisce a confondere le idee ai meno attrezzati nel campo della cultura dialettale, i quali non riescono a capire il perché di scritture così diverse. Ovvero non si sa proprio a chi fare riferimento, anche perché molti autori non intendono condividere regole. Per cui viene spontaneo dire che il dialetto barese è una lingua che si potrebbe definire individuale.
In relazione all’uso del dialetto, l’autrice sostiene che in Italia il dialetto va inteso come sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua nazionale, quindi un sistema che ha caratteri strutturali e una storia distinti rispetto a quelli della lingua italiana. La scrittura dialettale – e ciò si può osservare in qualsiasi area dialettale nazionale – è quanto mai varia per il fatto che nel tempo si sono proposte soluzioni grafiche diverse per rendere suoni particolari di ciascun dialetto.
La mancanza di grafie dialettali unitarie, finalizzata a rendere la fonetica dei dialetti, sembra dovuta al fatto che i dialetti non sono stati interessati dai processi di normalizzazione grafica, come avvenuto in qualche altra regione. Nel citato testo, ad esempio, si parla di tanti dialetti e di tante grammatiche ma del nostro dialetto, ad eccezione di un brevissimo cenno su quello arcaico che, secondo l’autrice, viene parlato nei quartieri dei pescatori (Bari vecchia), non c’è traccia. Di grammatiche, dizionari e autori baresi non se ne parla affatto. Mettere ordine o fissare regole e regolette e farle condividere è cosa assai difficile. Stessa cosa dicasi per il “Dizionario etimologico dei dialetti italiani” di M. Cortelazzo e C. Marcato” (UTET), nel quale c’è solo qualche cenno ai dialetti meridionali o pugliesi, ma nulla su quello barese. L’unico autore della provincia di Bari citato in bibliografia è Giovanni Colasuonno. Questo non vi dice nulla?
Le varietà dialettali presenti sono: abruzzese, brigasco, campano, corso, friulano, galloitalico, istrioto, ladino centrale, ladino veneto, laziale, ligure, ligure-piemontese, lombardo, lucano, lunigianese, marchigiano, molisano, piemontese, pugliese (nessun vocabolo barese), romagnolo, salentino, sardo, siciliano, ticinese, toscano, umbro, valdostano, veneto. Giudicate voi in quale considerazione è tenuta la nostra “parlata dialettale”.
Un vecchio proverbio barese recita: ‘La rà sce come la uè la fásce’ (La razza o raia, la prepari come ti pare e piace). La rà sce (razza o raja), è un pesce cartilagineo che si può preparare in vari modi. Anche per la lingua dialettale barese, sotto certi aspetti, è la stessa cosa, poiché ognuno la scrive come vuole e come crede, preferendo eventualmente un autore o un dizionario invece che un altro e, spesso, inventandosi il modo di scriverlo: c’è chi aggiunge due consonanti iniziali in taluni vocaboli: BBare, (Bari), nnanze (avanti), bbanne (banda), ffermà (fermare), o eliminando vocali in altri: kntènt (contento), abbnnà nz (abbondanza), ackmgghià t (coperto), cmmà tt (combattere), e così via. Per non parlare poi di fantomatici centri studi e accademie, presenti solo sulle carte e quindi di nessuna utilità .
Consultando, poi, alcuni calendari pubblicati in dialetto barese, ho notato una gran confusione sui contenuti e su come ognuno scrive il nostro vernacolo. Ho confrontato un po’ di vocaboli presenti sui calendari con alcuni dizionari attualmente presenti sul mercato. Dalla comparazione si evince che ciascuno degli autori, scrive a proprio piacimento ovvero secondo grammatiche o dizionari al quale personalmente si è ispirato, ma che non hanno alcuna ufficialità . Alcuni esempi: calendario diventa ‘calendarie’, ‘calannà rrie’, calannà rie’; gennaio: ‘gennà ie’, ‘gennà re’ (come Gennaro), ‘scennà re’; Francesco: ‘Frangische’, ‘Frangìscke’, ‘Brangische’; ‘Frangìske’, Giovanni: ‘Giuanne’, ‘Giuà nne’, ‘GGiuà nne’, Giacomo: ‘Giacheme’, ‘Già ggheme’, ‘Ggià ggheme’, Guglielmo: ‘Guglielme’, ‘Guglièlme’, ‘Ghegglièlme’; Leopoldo: ‘Leopolde’, ‘Diapòlde’; Nicandro: ‘Nicandre’, ‘Lecà ndre’; Filippo: ‘Felippe’, ‘Belìppe’; ‘Ferdinando’: ‘Ferdenande’, ‘Fredenà nde’; Luigi Gonzaga: ‘Luigi Conzaghe’, ‘Luìgge Chenzà che’; Leonardo: ‘Leonarde’, ‘Uanà rde’; Santi Pietro e Paolo: ‘S. Pitre e Paule’, ‘Sandre Pìite e PPà ule’; Pompeo: ‘Pompee’, ‘Bombè’; Bari: ‘Bare’, ‘BBare’, ‘Vare’; Eligio: ‘Eligie’, ‘Alìsce’. Quest’ultimo nome, come si può notare, qualcuno lo traduce esattamente con il nome dell’alice o acciuga, per cui se si dovesse dire, ad esempio, Eligio si mangia le alici, si tradurrebbe in dialetto ‘Alìsce se mange l’alìsce’(?). Insomma una gran confusione e, in certi casi, come si è visto, uno sperpero di consonanti alternato ad una economia di vocali. Il dialetto barese, come qualsiasi altro dialetto, può essere facile parlarlo, ma difficile scriverlo. Gli esempi sopra riportati ne sono la prova evidente.
Pertanto, quanto si pubblica nel nostro dialetto in fatto di poesie, testi, calendari, dizionari e grammatiche, va considerato solo ed esclusivamente un modo personale di scrivere che contribuisce a confondere le idee ai meno attrezzati nel campo della cultura dialettale, i quali non riescono a capire il perché di scritture così diverse. Ovvero non si sa proprio a chi fare riferimento, anche perché molti autori non intendono condividere regole. Per cui viene spontaneo dire che il dialetto barese è una lingua che si potrebbe definire individuale.
Dividere i dialetti italiani in grandi famiglie, mi sembra una cosa giustissima ed ovvia. Concordo nel dire che l’idioma barese rientri nella grande famiglia dei dialetti pugliesi; son cose risapute. Se il barese è un dialetto “individuale” o “com’a la rasce” (come alcuni affermano), beh, il blasonatissimo dialetto napoletano (che amo e del quale ho una buona preparazione), posso affermare lo sia ancòra di più. Il caos che regna nel dialetto napoletano (a livello di uniformità grammaticale), a mio avviso, è superiore a quello presente nel dialetto barese. Troppi dialetti stanno “inguaiati” da questo punto di vista; il barese è uno tra i tanti (pertanto non andrebbe crocifisso). E’ normale che molte parole utilizzate nelle lingue locali/non ufficiali (i dialetti), siano soggette a possedere più varianti; ciò è causato dall’evoluzione linguistica nel tempo (tanto più che, come dice l’articolo soprascritto, i dialetti non sono stati interessati dai processi [“ufficiali”, aggiungerei io] di normalizzazione grafica). Occorre sottolinearlo???... Sono affermazioni scontatissime (es.: in barese, “unire” si traduce “unì”, “aunì” e “aunèssce”). Nonostante ciò, va detto assolutamente che da anni si sta cercando di dare dignità al magnifico dialetto barese, fissando delle regole comuni di scrittura (a livello grammaticale). Onore a chi si impegna a farlo, dunque!... Determinate regole vanno fissate, in quanto indiscutibilmente fanno parte della natura della nostra lingua. E’ importante, ad esempio, non confondere tra loro i suoni /ji/ e /ij/ (errore molte volte commesso dagli scrittori). E’ importante non adoperare la “j” a casaccio (e pertanto, siccome occorrerebbe studiare approfonditamente l’argomento in questione, per semplificare le cose, sarebbe meglio non utilizzarla affatto, sostituendola sempre e solo con la semplice “i”). E’ importante saper individuare le “i” e le “u” prostetiche. E’ importante distinguere le “e” semimute da quelle non semimute. E’ importante trasformare (nei casi previsti) “ns” in “nz”, “mp”/”nb”/”np” in “mb”, “nf” in “nv”/”mb”, “nt” in “nd”, “lt” in “ld”, “nq”/”nc” in “ng”, ecc.. E’ fondamentale l’uso di “sck”. E’ importante distinguere “sc” da “ssc”. Con l’elenco mi fermo qui per non tediare i lettori ma, è ovvio che di regole da menzionare ce ne sarebbero ancòra (è necessario però che esse vadano applicate con coerenza e logicità ). Ed infine, credo che chi appoggia l’anarchia in scrittura, non voglia bene al nostro grandioso vernacolo. Sono certo che in futuro si giungerà all’uniformità grammaticale barese (il fattore dei termini dialettali aventi più varianti, inevitabilmente [a meno che il barese non diventi una lingua ufficiale], persisterà ). Viv’o dialètte nèste!
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RispondiElimina2015929dongdong
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