di Barbara Musciagli. Con oggi sono 107 giorni che mi separano dal mio primo viaggio in Africa, eppure quando penso a Kinshasa mi sembra di non essere mai andata via di lì.
Riesco a ricordare ancora gli odori, la sabbia e l’aria nera, quella luce strana che ho visto negli occhi di ogni congolese che ho conosciuto e quel cielo così basso che di notte sembra voler abbracciarti per augurarti la buona notte.
Eppure il mio arrivo a Kinshasa è stato traumatico! Volevo solo rimettere piede nell’aereo e tornare in Italia. Un aeroporto fatiscente, pieno di poliziotti con manganelli e mitra, quelle parole strane, una lingua incomprensibile. Neanche il tempo di capire dove sia che mi ritrovo senza passaporto e senza bagagli. Vengo catapultata in una stanza piccolissima, piena di valige, alternate a galline e pulcini che fuoriescono da un piccolissimo buco e trasportate da un nastro trasportatore. Un girone dell’inferno dantesco!
Raffaele (amico e guida dell'inviata, ndr) continua a ripetermi: non guardare nessuno, non parlare con nessuno, non ridere, rimani attaccata a me e spera solo che riusciamo ad uscire da qui!
Dopo ore e ore di tensione e attesa, finalmente mi restituiscono il passaporto ed i bagagli, non prima di aver lasciato una lauta mancia ai poliziotti.
Un poliziotto ci scorta fino a fuori all’aeroporto dove ci aspetta padre Macaire. Il tragitto fino alla missione degli oblati è interminabile, strade inesistenti, nessuna regola di guida, nessun segnale stradale.
Automobili senza fari, senza frecce, senza finestrini, senza porte, senza sedili.
Un'enorme strada infinita su cui scorrono fiumi lenti di persone. Ai bordi chilometri di persone a piedi e tanti bambini che frantumano pietre, che puliscono scarpe, che vendono di tutto. Sembra un enorme mercato.
Bastano due alberi e un filo per mettere su una bancarella. La strada è un susseguirsi di baracche colorate, tutte decorate a mano.
In Congo tutto è diverso: il tempo scorre lento, tutto è regolato in base al nascere e al calare del sole, la gente è rassegnata ma, al tempo stesso, speranzosa. Niente di tutto quello che abbiamo in Italia si può “incontrare“ in Congo, neanche la frenesia quotidiana che caratterizza la nostra vita, che spesso non ci fa avere neanche il tempo di guardare chi si ha di fronte. Nei miei sette giorni di vita congolese questo non è mai successo, eppure loro avevano tanti motivi per non fermarsi ad augurarmi il buongiorno e chiedermi: come stai?
Non c'è tempo per i nostri pensieri di bianchi, per le nostre poverissime categorie logiche, non c'è spazio, qui che di spazio ce n'è tanto.
A Kinshasa la vita è difficile e non perché i sogni non si avverano, ma perché, per molti, il problema non è cosa mangiare, ma riuscire a mangiare!
Ed ecco che nei miei pensieri appaiono le immagini di alcuni bambini che mangiavano ciò che trovavano a terra, tra mosche, zanzare ed insetti, ammesso che ciò che c’era a terra fosse commestibile; oppure di quei bimbi che per placare la fame mangiavano la corteccia del bambù, e ancora quel ragazzo di appena 15 anni che in mezzo ad un traffico indescrivibile di persone, macchine, animali, caldo e inquinamento creato dalle auto che noi rottamiamo, trasportava a spalle quintali di legname e non aveva i soldi per comprare una bottiglietta d’acqua.
A Kinshasa spesso manca l’elettricità , l’acqua e niente di tutto ciò che abbiamo in Italia è lontanamente immaginabile. Ma ciò che è davvero intollerabile è che a Kinshasa non esistono “diritti”: non c’è il diritto di cittadinanza, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione.
In Congo è tutto negato: spesso ai bambini viene negato anche il diritto a giocare e a sognare perché molti di questi bambini sono vittime di soprusi, abusi, violenze. A loro viene negata anche la loro infanzia!
Ma, paradossalmente, Kinshasa mi ha dato tanto… ed io oggi sono una persona molto più “ricca” rispetto alla mia partenza per il Congo, ho riscoperto il piacere delle cose semplici che spesso diamo per scontate.
Dal mio ritorno in Italia tante persone mi hanno chiesto di descrivere l’esperienza che ho vissuto, ma ogni volta incontro le stesse difficoltà . E’ difficile descrivere ciò che ho vissuto ma è ancora più difficile descrivere l’Africa perché l’Africa non è qualcosa che si può descrivere con le parole ma è l’esplosione di colori ed emozioni che provo ogni volta che penso a Kinshasa.
Per questa bellissima esperienza ringrazio Raffaele, Elena ed il Rotary
Riesco a ricordare ancora gli odori, la sabbia e l’aria nera, quella luce strana che ho visto negli occhi di ogni congolese che ho conosciuto e quel cielo così basso che di notte sembra voler abbracciarti per augurarti la buona notte.
Eppure il mio arrivo a Kinshasa è stato traumatico! Volevo solo rimettere piede nell’aereo e tornare in Italia. Un aeroporto fatiscente, pieno di poliziotti con manganelli e mitra, quelle parole strane, una lingua incomprensibile. Neanche il tempo di capire dove sia che mi ritrovo senza passaporto e senza bagagli. Vengo catapultata in una stanza piccolissima, piena di valige, alternate a galline e pulcini che fuoriescono da un piccolissimo buco e trasportate da un nastro trasportatore. Un girone dell’inferno dantesco!
Raffaele (amico e guida dell'inviata, ndr) continua a ripetermi: non guardare nessuno, non parlare con nessuno, non ridere, rimani attaccata a me e spera solo che riusciamo ad uscire da qui!
Dopo ore e ore di tensione e attesa, finalmente mi restituiscono il passaporto ed i bagagli, non prima di aver lasciato una lauta mancia ai poliziotti.
Un poliziotto ci scorta fino a fuori all’aeroporto dove ci aspetta padre Macaire. Il tragitto fino alla missione degli oblati è interminabile, strade inesistenti, nessuna regola di guida, nessun segnale stradale.
Automobili senza fari, senza frecce, senza finestrini, senza porte, senza sedili.
Un'enorme strada infinita su cui scorrono fiumi lenti di persone. Ai bordi chilometri di persone a piedi e tanti bambini che frantumano pietre, che puliscono scarpe, che vendono di tutto. Sembra un enorme mercato.
Bastano due alberi e un filo per mettere su una bancarella. La strada è un susseguirsi di baracche colorate, tutte decorate a mano.
In Congo tutto è diverso: il tempo scorre lento, tutto è regolato in base al nascere e al calare del sole, la gente è rassegnata ma, al tempo stesso, speranzosa. Niente di tutto quello che abbiamo in Italia si può “incontrare“ in Congo, neanche la frenesia quotidiana che caratterizza la nostra vita, che spesso non ci fa avere neanche il tempo di guardare chi si ha di fronte. Nei miei sette giorni di vita congolese questo non è mai successo, eppure loro avevano tanti motivi per non fermarsi ad augurarmi il buongiorno e chiedermi: come stai?
Non c'è tempo per i nostri pensieri di bianchi, per le nostre poverissime categorie logiche, non c'è spazio, qui che di spazio ce n'è tanto.
A Kinshasa la vita è difficile e non perché i sogni non si avverano, ma perché, per molti, il problema non è cosa mangiare, ma riuscire a mangiare!
Ed ecco che nei miei pensieri appaiono le immagini di alcuni bambini che mangiavano ciò che trovavano a terra, tra mosche, zanzare ed insetti, ammesso che ciò che c’era a terra fosse commestibile; oppure di quei bimbi che per placare la fame mangiavano la corteccia del bambù, e ancora quel ragazzo di appena 15 anni che in mezzo ad un traffico indescrivibile di persone, macchine, animali, caldo e inquinamento creato dalle auto che noi rottamiamo, trasportava a spalle quintali di legname e non aveva i soldi per comprare una bottiglietta d’acqua.
A Kinshasa spesso manca l’elettricità , l’acqua e niente di tutto ciò che abbiamo in Italia è lontanamente immaginabile. Ma ciò che è davvero intollerabile è che a Kinshasa non esistono “diritti”: non c’è il diritto di cittadinanza, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione.
In Congo è tutto negato: spesso ai bambini viene negato anche il diritto a giocare e a sognare perché molti di questi bambini sono vittime di soprusi, abusi, violenze. A loro viene negata anche la loro infanzia!
Ma, paradossalmente, Kinshasa mi ha dato tanto… ed io oggi sono una persona molto più “ricca” rispetto alla mia partenza per il Congo, ho riscoperto il piacere delle cose semplici che spesso diamo per scontate.
Dal mio ritorno in Italia tante persone mi hanno chiesto di descrivere l’esperienza che ho vissuto, ma ogni volta incontro le stesse difficoltà . E’ difficile descrivere ciò che ho vissuto ma è ancora più difficile descrivere l’Africa perché l’Africa non è qualcosa che si può descrivere con le parole ma è l’esplosione di colori ed emozioni che provo ogni volta che penso a Kinshasa.
Per questa bellissima esperienza ringrazio Raffaele, Elena ed il Rotary
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