di Francesco Greco. Una volta tanto non c’è bisogno dell’enfasi degli uffici-stampa. “Semplicemente perfetto!”, strilla in copertina Sophie Kinsella. E in quarta fa eco il N. Y. Times: “Un romanzo sensazionale” (che sinora ha venduto oltre 1.500.000mila copie in Francia e 100mila in una sola settimana negli Usa, mentre sta per sbarcare in Germania, Francia, Spagna, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Russia, Svezia, Serbia, Taiwan, Thailandia, Turchia, Vietnam). L’edizione italiana è presente, oltre che nelle librerie, anche nei negozi vintage.
“Passione Vintage”, di Isabel Wolff (Leggereditore, Gruppo Fanucci, con la calibrata traduzione di Alessia Donin), pp.402, € 14, prende per mano il lettore sin dall’incipit (“Almeno settembre è un buon momento per un nuovo inizio…”) e lo conduce in un labirinto di passioni devastanti, risentimenti provocati da lutti in continua elaborazione, vite bruciate dai rimpianti, il passato che ritorna con le sue asprezze e con cui occorre fare i conti nella speranza di rimuovere i grumi sedimentati dagli anni e darsi un domani sgombro, se non da esili cirri, almeno da qualche minacciosa nuvola.
L’espediente letterario usato dalla narratrice britannica (che ha nel carnet ben sette romanzi, tutti best-seller, e della cui biografia poco si sa), è quello dei capi d’abbigliamento del passato, che hanno un loro intrigante background e possono raccontare le storie insospettate di chi li ha portati. Un po’ come il manoscritto che spunta da qualche parte. Chissà cos’avrà da narrare un abito da sera in seta blu scuro del 1960 di Cristòbal Balenciaga, quel meraviglioso vestito bianco di Madame Grès, e quella borsa di Hermès, oltre a quel cappottino azzurro, di bambina… Dopo una delusione d’amore, Phoebe Jane Swift decide di ricominciare, di darsi un’altra possibilità: si licenzia da Sotheby’s, fa un prestito in banca e apre “Village Vintage”, un negozio di abiti usati nel cuore di Londra. Gli affari non vanno male, anche se è un lavoro stressante fra la ricognizione di capi di cui la gente vuol disfarsi (dopo un lutto improvviso, un divorzio e quant’altro), quelli da comprare alle aste e quelli taroccati che vogliono vendergli. La 33enne si fa aiutare da Annie, un’attrice “precaria” che passa da un casting all’altro per sfangarla. “Le donne vogliono individualità, non produzione di massa, ed è quello che dà loro il vintage”, è la filosofia che regge l’impresa di Phoebe, che la chiarisce meglio a se stessa: “Indossare vintage è una protesta contro la produzione di massa”.
Sarebbe una dimensione esistenziale standard, nel XXI secolo, almeno per la upper-class nella british society, se non emergessero i fantasmi del passato. E sono ostacoli ingombranti la cui rimozione è più ardua di quanto si possa immaginare. Phoebe è stata amica di Emma Mandisa Kitts sin da quando era una ragazzina (di origine sudafricana) un po’ paffutella, con grandi occhi verdi, che riesce a “trattenere il fiato per secoli”. E che da grande è diventata un’artista-cult nell’intrecciare cappelli di paglia (un archetipo dell’eleganza dalle sponde del Tamigi alle bianche scogliere di Dover) che piacciono un sacco alle star del cinema. Phoebe dunque versus Emma, e poi versus la signora Thérèse Bell, una donna di origine francese, ormai 79enne, gravemente malata, vedova di un uomo bellissimo, e che ha deciso di disfarsi del passato vendendo i suoi abiti, ma non un cappotto azzurro semanticamente afflollato di significati significanti. Anche la signora Bell, in vista del “the end”, deve consegnare a qualcuno i ricordi di una vita, negati anche al marito, e sceglie Phoebe per consegnare il fardello. Thérèse versus Monique, una ragazzina di origine ebraica di cui fu amica nell’infanzia sotto l’occupazione tedesca e che un giorno si ritrovò sola a causa di un rastrellamento che, ad Avignone, le portò via i genitori e i fratelli-gemelli. Anche qui c’è un ragazzo: Jean-Luc, che piace a entrambe. La Wolff tratteggia in maniera sapiente i personaggi femminili e la loro psicologia: oltre alle donne succitate, dalla madre, piantata dopo 38 anni di matrimonio, a Ruth, la ruvida produttrice tv che le ha portato via il marito, archeologo in carriera, facendosi mettere incinta. I maschi invece sono marginali, superficiali, mediocri, pieni di tic e paranoie: dal giornalista Dan e il suo incombente temperamatite, al padre che ha avuto il piccolo Louis da Ruth, incluso l’avvocato Miles Archant, un malmostoso vedovo che ingaggia con Phoebe una lotta serrata a un’asta e poi si arrende e che la corteggia discretamente e, centrale, Guy (che gestisce un fondo etico), il ragazzo incontrato da Emma, che piace così tanto all’amica che ci si fidanza, e che tuttavia ha lasciato con la disapprovazione della madre.
Forse la Wolff è misogina? O vuol dirci che la società britannica corre verso un matriarcato in progress, in una riedizione riveduta e corretta del thachterismo? Un intreccio, come si vede, che tiene vivo abilmente con pennellate decise e incalzanti e una suspence amplificata, fatta di echi e risonanze (uno dei punti di forza del romanzo). Con una scrittura molto evocativa, lieve come ali di farfalle, tersa come un mattino di primavera. Una storia d’amicizia fra donne, sublimata nella complicità, trasfigurata nella sovrapposizione speculare di lacerti di quotidianità, di vissuti comuni l’una all’altra, di percezioni e sensibilità condivise e che tuttavia incubano tragedie. Risolta con un equilibrio narrativo sottile, una formula alchemica che solo le scrittrici di razza riescono a trovare. Una tela sapientemente intrecciata attorno a una data, il 15 febbraio, il giorno in cui Emma…
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