di Francesco Greco. Nardò vs Rosarno, la terra rossa di Capitanata quella del “Cara” di Bari. Storie di uomini arsi dal sole e caporali di giornata. Ma, sorpresa: lavoro nero, sfruttamento, umiliazione, la negazione d’ogni diritto e dignità, perfino dell’acqua (Zingonia, profondo Nord) trasversali a geografia e politica. Nord e Sud uniti nella vergogna: destra o sinistra per me pari son. Finalmente possiamo festeggiare i 150 anni della patria matrigna, indigesta, che fa ammuina, la faccia feroce, pavesata da tricolori retorici. Tutte le location sublimano meccanismi e disvalori di cui la 6a potenza mondiale dovrebbe arrossire. Dovrebbe.
Saggio politically scorrect, perciò strettamente necessario, di Stefania Ragusa: “Le Rosarno d’Italia” (Storie di ordinaria ingiustizia), Vallecchi 2011, pp. 200, € 14, Collana “Le Stelle”. Da adottare nelle scuole di una Repubblica ipocrita, che spazza una tematica sì complessa sotto al tappeto: meticciato e ibridazione, pure realtà in progress, e non da oggi, posti in termini volutamente razzisti e xenofobi, difensivi, non di reciproco arricchimento, opportunità. Dovrebbe essere input per un dibattito, prima che la tv-spazzatura sommerga il nostro immaginario mitridatizzando la percezione del reale, posto che non sia già così e non veda giusto Saviano: “Gli immigrati vengono qui a difendere diritti che agli italiani non interessa più difendere…”.
E dunque un’Italietta “di dolore ostello”, incarognita, incapace di scandalo, imbolsita dallo zampone natalizio, il 7 gennaio 2010 “scopre” ciò che si agita nel sottosuolo dostoevskiano. Un ragazzo del Togo torna a casa, l’ex Opera-Sila (fabbrica morta sulla via per Gioia Tauro, rudere senza acqua e luce, archeo-monumento della fallita industrializzazione a Sud): ci vive con altri 900. Gli sparano, lo fanno anche su due africans poco dopo intorno all’ex fabbrica Rognetta (al Sud ormai è tutto ex, abbandonato a se stesso, ai suoi istinti peggiori: è l’ex-Sud). Non è la prima volta che si mira ai braccianti neri. Di qua si ossifica l’archetipo: “Fanno lavori che gli italiani non vogliono fare”. Dall’altro, chi dovrebbe darsi da fare, suggestionato dalla criminalità, imbraccia l’arma come cane rabbioso a cui rubano la scodella di zuppa. Anche senza Facebook la notizia vola: gli africans, stanchi di intimidazioni, protestano civilmente, ma la criminalità infiltra la manovalanza e le riprese tv degli scontri rimbalzano nel mondo. Rosarno arde come le banlieu parigine, i quartieri “riots” a Londra, i ghetti neri di Harlem e Malcom X, la “primavera araba”.
Stefania Ragusa è siciliana (vive a Milano, scrive su “Glamour”), è mora. Da piccola un giovane tunisino, dall’improbabile nome di Michael, le dice: “Sei bella”, e la madre la avvisa: “Attenta, sono arabi, sono precoci”. E’ una delle fondatrici della rete antirazzista “Primo Marzo”, ha un blog (www.stefaniaragusa.com). Non crede alle leggende metropolitane, toccata dalla potenza delle immagini va “sul territorio” e scopre che Rosarno è solo una delle facce sparse da Nord a Sud in un Belpaese che le esorcizza con la subcultura tv feticista, e i media che ormai applicano ovunque il format del gossip, come se la vita fosse un pranzo di gala: le performance erotiche della Marini intrigano più dell’eternit sotto cui si ripara dal sole feroce il raccoglitore di pomodori nel Foggiano.
Ecco una ricognizione, incompleta (non c’è la schiavitù fotovoltaica, la “strage degli innocenti” a Castelvolturno nel 2008), delle clonazioni di Rosarno. Dai ghetti di via Padova (Milano) e Imola alle cave di porfido in Val di Cembra (Trentino, “sfruttamento gentile”) fino alla Prato dagli occhi a mandorla, dagherrotipi in b/n, quipus di etnie da un’Italia insospettata, che si credevano sbiaditi col tramonto del “secolo breve”. Invece i migranti che a Nardò lavorano dalle 4 del mattino alle 7 di sera per pochi €, e il caporale che ne porta a casa 1000 sulla loro pelle, sono aspra realtà. “Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita – rifletteva Jerry Essan Masslo, assassinato nell’89 a Villa Literno - una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi…”. Sognavano il Paradiso, si ritrovano in un girone dantesco.
La saggista è curiosa e appassionata, militante, come dovrebbe il giornalismo borderline con gli strumenti nell’epoca del byte. Col format preso dal cinema neorealista, pasoliniano, fruga le interfacce scannerizzandole oltre i luoghi comuni. Porta alla luce aspetti vivi, quotidiani, citazioni dalla tratta degli schiavi, la prima rivoluzione industriale, i bastimenti dal molo Beverello, le visite mediche degli italiani diretti in Svizzera. Il tutto incrudito da una crisi dei mercati ma anche culturale e spirituale, che da un lato rende più vorace un Capitalismo tossico, tornato agli inizi, la legge della foresta, le ferriere, lo jus primae noctis, incapace di darsi – nel suo interesse – un’etica, dall’altro la solitudine dei lavoratori, indigeni e migranti, abbandonati anche dal sindacato che col morto sul cantiere manda sempre lo stesso comunicato-stampa di furore “democratico”.
E la politica? Non ti curar di loro… Dopo Turco-Napolitano e Bossi-Fini ha inventato i Cie (Centri d’espulsione). Legittima de facto lo status quo intessendogli attorno un canovaccio normativo che la fa archetipo. Spinge i poveri del Sud a farsi carne da macello per le cosche. Ma è sicuro che i politici hanno il permesso di soggiorno?