di Francesco Greco. Diciamolo senza se e senza ma: Leopardi l’ha rovinato la scuola. Dalla sua opera monumentale ha estrapolato il necessario a farne un’icona nazionalpopolare, a una sola dimensione, intrisa di cattolicesimo retrò funzionale allo status-quo. Un raffinato intellettuale che, ponendosi allo snodo fra antico e moderno, con la sua speculazione s’è spinto sin dove pochissimi hanno osato: egli infatti “attribuisce alla rottura del paradigma naturale lo sradicamento che caratterizza l’uomo a lui contemporaneo, gettato nell’esistenza per caso, senza uno scopo che lo identifichi e senza un senso che dia valore alla sua vita”.
Basta questo incipit per capire quanto il poeta-filosofo di Recanati, nelle Marche, sia bello tosto e postmoderno, surroghi ogni avanguardia di ieri, oggi e sempre, portatore com’è d’una semantica a forma di prisma, dalle facce infinite. E invece la scuola fascista prima, democristiana e poi comunista poi l’hanno “addomesticato”, quasi evirato per paura di un pensiero destrutturante nella sua radicalità, capace di destabilizzare ogni etica-estetica sedimentata da una Babele di compromessi e tradimenti del senso alla fine rivelatisi fatali per l’uomo moderno oggi più che mai in lotta con la relativizzazione della sua interiorità.
L’audacia del pensiero leopardiano, derubricato dall’accademia a guru del pessimismo esistenziale tutto languori e pene d’amore, è al contrario scagliata in un tempo illimitato che la riattualizza di continuo svelando le eterne finzioni, le “maschere” per dirla col figlio del Conte Monaldo, le illusioni frustrate, le paure su cui l’uomo nel mezzo “dello squilibrio instauratosi fra natura e civiltà, passione e ragione” s’è spinto e vive la sua vita come dentro a una mesta, ingrata pantomina.
Leopardi fortunatamente per noi è di più e d’altro ove lo si voglia decodificare senza pregiudizi, anche in quei testi proposti in chiave di banalità. A rafforzare tali postulati, Donzelli manda in libreria, nella formula rivelatasi vincente che è la collana, “Giacomo Leopardi. Le Passioni”, pp. 176, € 8, con la pregnante introduzione di Fabiana Cacciapuoti, studiosa che s’è spinta ben dentro al complesso riflettere del poeta-filosofo. E infatti osserva: “Leopardi penetra nei recessi dell’anima e svela le dinamiche delle passioni. L’ambivalenza dei sentimenti lo affascina; è capace di renderne mutevolezza e complessità. Alcune passioni, come l’odio e l’invidia, non conoscono tempo, altre mutano insieme al cambiamento della struttura sociale, come l’amore”. Egli stesso, d’altronde, che pure non ebbe vita facile, considerava le passioni uno dei punti cardinali della sua riflessione.
Bastano queste poche parole a rafforzare il rimpianto per una semplificazione del suo pensiero che, al contrario, necessita di infinite password per potervisi approcciare “cum grano salis”, nella piena coscienza d’avere a che fare con un classico imperituro: lo era al suo tempo e sempre lo sarà. Leopardi tese la sua speculazione allo spasimo, osò azzardi insospettati, e c’è da chiedersi dove sarebbe giunto se il lasso di tempo concessogli dal Fato (che pure tentò di padroneggiare, benché attraverso la disperazione di Didone) non fosse stato così esiguo (morì a Napoli nel 1937, era nato a Recanati nel 1798 dal conte suddetto e Adelaide dei Marchesi Antici).
Un’altra banalità usata come approccio alla sua opera è l’osmosi fra la biografia e la speculazione filosofica finita quasi tutta nello “scartafaccio” dello “Zibaldone” (edito , fra 1898 e 1902 per l’intervento del Carducci). Fu di salute cagionevole, è risaputo, afflitto da numerose patologie, del corpo e dell’anima anche a causa di uno studio onnivoro. Il suo pensiero però godeva d’ottima salute, e anzi riuscì a sublimare la noia dell’esistenza in una “musa” ispiratrice. E in queste riflessioni emerge nitida e pura tutta la forza, il “fuoco greco” si direbbe, la potenza di una mente che non si diede orizzonti finiti, scarnificando il pensiero sino a toccare vette rarefatte d’essenzialità.
Eccone un frammento rivelatore: “L’uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si lanci all’esterno o si rannicchi nell’interno, ma quasi tutte le sue passioni si contengono per così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini, ec. In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell’indifferenza e conseguentemente nella noia, mancando d’impressioni forti e straordinarie”. Attuale più che mai.
“Lavora di contrappunto – aggiunge la Cacciapuoti – in un continuo andirivieni tra passato e presente, quasi a mostrare la frattura fra sensibilità e indifferenza, empatia e freddezza, azione e inazione, vitalità e introversione, ben consapevole che quelle dicotomie gli appartengono”. Fu dunque facile alla noia. E cosa dovremmo dire oggi noi immersi sino al collo nella “mezza natura” (così definiva la modernità)? Un libro che si legge d’un fiato, anche per capire l’abisso in cui siamo precipitati sminuendo la natura e il suo influsso, recidendo il cordone ombelicale in nome di una modernità equivoca e alienante e dei suoi sudici feticci.
Basta questo incipit per capire quanto il poeta-filosofo di Recanati, nelle Marche, sia bello tosto e postmoderno, surroghi ogni avanguardia di ieri, oggi e sempre, portatore com’è d’una semantica a forma di prisma, dalle facce infinite. E invece la scuola fascista prima, democristiana e poi comunista poi l’hanno “addomesticato”, quasi evirato per paura di un pensiero destrutturante nella sua radicalità, capace di destabilizzare ogni etica-estetica sedimentata da una Babele di compromessi e tradimenti del senso alla fine rivelatisi fatali per l’uomo moderno oggi più che mai in lotta con la relativizzazione della sua interiorità.
L’audacia del pensiero leopardiano, derubricato dall’accademia a guru del pessimismo esistenziale tutto languori e pene d’amore, è al contrario scagliata in un tempo illimitato che la riattualizza di continuo svelando le eterne finzioni, le “maschere” per dirla col figlio del Conte Monaldo, le illusioni frustrate, le paure su cui l’uomo nel mezzo “dello squilibrio instauratosi fra natura e civiltà, passione e ragione” s’è spinto e vive la sua vita come dentro a una mesta, ingrata pantomina.
Leopardi fortunatamente per noi è di più e d’altro ove lo si voglia decodificare senza pregiudizi, anche in quei testi proposti in chiave di banalità. A rafforzare tali postulati, Donzelli manda in libreria, nella formula rivelatasi vincente che è la collana
Bastano queste poche parole a rafforzare il rimpianto per una semplificazione del suo pensiero che, al contrario, necessita di infinite password per potervisi approcciare “cum grano salis”, nella piena coscienza d’avere a che fare con un classico imperituro: lo era al suo tempo e sempre lo sarà. Leopardi tese la sua speculazione allo spasimo, osò azzardi insospettati, e c’è da chiedersi dove sarebbe giunto se il lasso di tempo concessogli dal Fato (che pure tentò di padroneggiare, benché attraverso la disperazione di Didone) non fosse stato così esiguo (morì a Napoli nel 1937, era nato a Recanati nel 1798 dal conte suddetto e Adelaide dei Marchesi Antici).
Un’altra banalità usata come approccio alla sua opera è l’osmosi fra la biografia e la speculazione filosofica finita quasi tutta nello “scartafaccio” dello “Zibaldone” (edito , fra 1898 e 1902 per l’intervento del Carducci). Fu di salute cagionevole, è risaputo, afflitto da numerose patologie, del corpo e dell’anima anche a causa di uno studio onnivoro. Il suo pensiero però godeva d’ottima salute, e anzi riuscì a sublimare la noia dell’esistenza in una “musa” ispiratrice. E in queste riflessioni emerge nitida e pura tutta la forza, il “fuoco greco” si direbbe, la potenza di una mente che non si diede orizzonti finiti, scarnificando il pensiero sino a toccare vette rarefatte d’essenzialità.
Eccone un frammento rivelatore: “L’uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si lanci all’esterno o si rannicchi nell’interno, ma quasi tutte le sue passioni si contengono per così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini, ec. In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell’indifferenza e conseguentemente nella noia, mancando d’impressioni forti e straordinarie”. Attuale più che mai.
“Lavora di contrappunto – aggiunge la Cacciapuoti – in un continuo andirivieni tra passato e presente, quasi a mostrare la frattura fra sensibilità e indifferenza, empatia e freddezza, azione e inazione, vitalità e introversione, ben consapevole che quelle dicotomie gli appartengono”. Fu dunque facile alla noia. E cosa dovremmo dire oggi noi immersi sino al collo nella “mezza natura” (così definiva la modernità)? Un libro che si legge d’un fiato, anche per capire l’abisso in cui siamo precipitati sminuendo la natura e il suo influsso, recidendo il cordone ombelicale in nome di una modernità equivoca e alienante e dei suoi sudici feticci.