di Francesco Greco. Quel che si dice talento naturale. Che relativizza le scuole di scrittura creativa. Il genio nasce tale. E Alexandra Adornetto lo è. La scrittrice australiana, a soli 17 anni (ora ne ha 19, è nata il 18 aprile 1992) esordisce con un romanzo, “Rebel”, Editrice Nord, Milano 2011, pp. 384, € 16.60, da cui traspare una maturità insospettata sia per il tocco morbido e sicuro con cui padroneggia la scrittura, il plot, il canovaccio, e sia per l’idea interna che dà l’anima alla storia che racconta retta com’è da un’architettura robusta.
Siamo davanti a un “caso” letterario. Opere come “Rebel” sono un punto d’arrivo dopo performance di formazione. Alexandra ha cominciato a scrivere a 13 anni, nella sua stanzetta, rinunciando alle vacanze, incoraggiata da madre, agente e psicologo. Il successo è stato immediato: è entrata nelle classifiche del “New York Times” e del “Publishers Weekly” e ora vive fra Australia e Usa, continuando a scrivere e cercando spazio anche nel cinema. La terza di copertina ci dà una bellissima ragazza dallo sguardo fiero, i lineamenti delicati, la fronte ampia. Un po’ Jodie Foster, un po’ Sophie Coppola. Non c’è bisogno della Sfinge per capire che arriverà pure sul grande schermo.
E dunque “Rebel” (titolo originale “Halo”, preziosa traduzione di Laura Prandino e Alice Gerratana: non si perde nulla, e non sempre succede). Si legge d’un fiato come ipnotizzati da uno stile di “puro candore”, che nell’assenza di malizia letteraria ha la sua forza, nella misura lo scarto vincente, nel continuo intreccio e invenzioni la password per entrare in un mondo onirico, e che descritto da lei appare più vero di ogni iperbole virtuale. Lo spirito che illumina “Rebel” affonda i postulati nel disagio generazionale, l’inquietudine delle ventenni del XXI secolo che se da un lato offre, attraverso scienza e tecnologia, un’infinità di opzioni perché la vita sia vissuta come se il byte fosse il Sacro Graal dall’altro, come per un sottinteso patto faustiano, pretende in cambio l’inaridimento del mondo interiore, la desertificazione del proprio io.
E’ solo, beninteso, una delle “chiavi” possibili per entrare a “Rebel”, cioè a Venus Cove, “sonnolenta cittadina di mare, uno di quei posti dove non cambiava mai nulla”. E dove arrivano in incognita tre angeli: Gabriel, Ivy e Bethany. Hanno una mission precisa: sottrarre l’umanità alla deriva, corrotta, perduta, dalle mani delle oscure forze delle tenebre, preda dei suoi istinti peggiori, per ridarle un’anima. E anche questo elemento si surroga a valore d’archetipo: il tormento esistenziale delle nuove generazioni, che rifiutano un mondo perverso e le sue logiche sociali aberranti, che sentono estraneo. A tratti “Rebel” trasfigura quindi un format antropologico e sociologico dicendo dei ventenni che vediamo alla fermata dell’autobus, tutti i-pod, blog e tattoo, più di mille saggi scritti con l’idioma sterile dell’accademia.
La prima difficoltà degli “inviati” è mimetizzarsi assumendo identità “terrestre”, vivendo in un college dove sono accaduti, e continuano a esserci, strani fatti. Devono poi ricordare a se stessi che non possono innamorarsi: condizione lacerante poiché son venuti per riportare l’amore sul pianeta dove “la cosa peggiore era il rumore”. Ma la trasgressione, zeppa di semantica, ha valore escatologico poiché “gli umani si preoccupavano moltissimo dell’amore; erano disposti a tutto pur di trovare la loro ”. Al contrario, “gli esseri celesti non si curavano delle relazioni umane… mi sembrava stupefacente che permettessero a un’altra persona d’impadronirsi dei loro cuori e delle loro menti”. Continuerà a essere così dopo che i tre angeli saranno tornati nel loro mondo di “luce abbacinante”?
Siamo davanti a un “caso” letterario. Opere come “Rebel” sono un punto d’arrivo dopo performance di formazione. Alexandra ha cominciato a scrivere a 13 anni, nella sua stanzetta, rinunciando alle vacanze, incoraggiata da madre, agente e psicologo. Il successo è stato immediato: è entrata nelle classifiche del “New York Times” e del “Publishers Weekly” e ora vive fra Australia e Usa, continuando a scrivere e cercando spazio anche nel cinema. La terza di copertina ci dà una bellissima ragazza dallo sguardo fiero, i lineamenti delicati, la fronte ampia. Un po’ Jodie Foster, un po’ Sophie Coppola. Non c’è bisogno della Sfinge per capire che arriverà pure sul grande schermo.
E dunque “Rebel” (titolo originale “Halo”, preziosa traduzione di Laura Prandino e Alice Gerratana: non si perde nulla, e non sempre succede). Si legge d’un fiato come ipnotizzati da uno stile di “puro candore”, che nell’assenza di malizia letteraria ha la sua forza, nella misura lo scarto vincente, nel continuo intreccio e invenzioni la password per entrare in un mondo onirico, e che descritto da lei appare più vero di ogni iperbole virtuale. Lo spirito che illumina “Rebel” affonda i postulati nel disagio generazionale, l’inquietudine delle ventenni del XXI secolo che se da un lato offre, attraverso scienza e tecnologia, un’infinità di opzioni perché la vita sia vissuta come se il byte fosse il Sacro Graal dall’altro, come per un sottinteso patto faustiano, pretende in cambio l’inaridimento del mondo interiore, la desertificazione del proprio io.
E’ solo, beninteso, una delle “chiavi” possibili per entrare a “Rebel”, cioè a Venus Cove, “sonnolenta cittadina di mare, uno di quei posti dove non cambiava mai nulla”. E dove arrivano in incognita tre angeli: Gabriel, Ivy e Bethany. Hanno una mission precisa: sottrarre l’umanità alla deriva, corrotta, perduta, dalle mani delle oscure forze delle tenebre, preda dei suoi istinti peggiori, per ridarle un’anima. E anche questo elemento si surroga a valore d’archetipo: il tormento esistenziale delle nuove generazioni, che rifiutano un mondo perverso e le sue logiche sociali aberranti, che sentono estraneo. A tratti “Rebel” trasfigura quindi un format antropologico e sociologico dicendo dei ventenni che vediamo alla fermata dell’autobus, tutti i-pod, blog e tattoo, più di mille saggi scritti con l’idioma sterile dell’accademia.
La prima difficoltà degli “inviati” è mimetizzarsi assumendo identità “terrestre”, vivendo in un college dove sono accaduti, e continuano a esserci, strani fatti. Devono poi ricordare a se stessi che non possono innamorarsi: condizione lacerante poiché son venuti per riportare l’amore sul pianeta dove “la cosa peggiore era il rumore”. Ma la trasgressione, zeppa di semantica, ha valore escatologico poiché “gli umani si preoccupavano moltissimo dell’amore; erano disposti a tutto pur di trovare la loro