di Raffaele Ciracì. Molte volte mi é capitato di dover rispondere alla domanda: ma come é nata l'idea dell'A.N.A.C.?
Ebbene, tutte le volte che provo a rispondere in maniera ordinata a questa domanda, finisco per travolgere con un fiume di parole chi mi sta vicino, così grande è la motivazione che muove i miei pensieri e le mie azioni. Ma, facendo ciò, non posso mai chiarire veramente quel è stata la scintilla che ha messo in moto tutto, che ha permesso di realizzare la nostra associazione. E come se dovessi esprimere parole ineffabili che sono sepolte nel mio profondo, che non appartengono alla sfera del razionale, non fanno parte di un calcolo e non derivano dall’analisi, ma provengono dalle remote regioni del cuore, sgorgano spontaneamente dal centro vitale dei miei sentimenti, perché hanno la forza delle buone intenzioni e dei valori umani.
E infatti, a parole, non saprei proprio dire perché quella sera del 2002 rimasi attaccato al televisore e continuai a guardare il documentario sugli orfani del Congo, non so perché non cambiai canale, perché la loro sofferenza divenne mia. Spesso l'indifferenza è l’unica risposta istintiva di fronte a tanta sofferenza, il modo che l'uomo comune ha di sottrarsi all’immane disastro che alcuni popoli vivono, di rispondere alla propria impotenza, all’impossibilità di trovare soluzioni immediate a problemi così complessi e generali. Quel giorno, però, accadde che io rimanessi sveglio, accadde che sentissi forte il bisogno di far qualcosa. Sentì che a ognuno, anche all’uomo qualunque, é dato il compito di offrire il proprio contributo. Non potevo più rimanermene nel comodo rifugio della mia quotidianità . Non potevo più schermarmi con le armi dell’indifferenza per proteggermi dal sentimento di compassione che quel documentario aveva sollevato in me.
Mi trovavo, infatti, nel cuore della notte, e ascoltavo assieme a mia moglie, in silenzio, la tragica storia dei bambini-soldato nella Repubblica Democratica del Congo. Nel documentario si descriveva la storia di un grande paese africano soggiogato dalla violenza, governato dai signori della guerra, controllato attraverso antiche credenze tribali; una popolazione vittima dell’ignoranza e della superstizione. Il mattino dopo, io e mia moglie, che come me non aveva voluto “cambiar canale”, ci trovammo intenti a capire come muoverci. La domanda era: cosa fare? In mezzo a tanti dubbi, avevamo però una certezza: sottrarre da quell'inferno almeno un bambino. Iniziò così quel lungo e non meno doloroso iter per l'adozione internazionale. Non fu facile spiegare ai giudici il perché di quella decisione, come mai, pur essendo genitori di ben 5 figli, volevamo fortemente un bimbo, spiegare perché mai avremmo voluto tentare di adottare un bambino che non fosse il ‘nostro’. Questa parola, più di tante altre, mi fece pensare che il punto cruciale era proprio questo: i bimbi, tutti, sono un bene universale, che va accolto e difeso come prezioso patrimonio dell’uomo. Mia moglie ed io dicevamo: «I bambini, tutti, rappresentato il nostro futuro e la nostra speranza. Dietro ogni volto, bianco o nero, olivastro o giallo, si racchiude tutta la possibilità umana. Tutti quanti sono i nostri bambini. Appartengono a tutti e tutti dovremmo far qualcosa per difenderli».
Non sto qui a descrivere la valanga di emozioni e l'iter burocratico comune a noi e a coloro che decidono di adottare un bambino. Vale però la pena di raccontare che cosa accadde nel novembre del 2003 quando, finalmente giunti in Congo, abbracciammo la nostra bambina. Era tenuta in braccio da una suora che in lingua lincala le disse: questa é tua madre questo é tuo padre. Ma più di ogni parola, fu un gesto a stabilire il vincolo che ci avrebbe per sempre legati alla bambina. Fu un suo gesto, un suo dono: la piccola si aggrappò al mio collo fiduciosa, quasi fosse sempre stata in attesa di quel momento, quasi fosse stato un fatto abituale, naturale e famigliare. Quella bimbetta gracile e minuscola di 2 anni, in un istante e con un solo tenerissimo gesto, affidò la sua vita alle nostre mani, trasmettendo a noi quella forza e quel coraggio di cui aveva bisogno. Da allora, mia figlia Magda – così si chiama la nostra bambina – é la mia Africa, la mia memoria. È la promessa di un futuro di dignità e di speranza che trascende il nostro singolo caso, ma che si estende a tutti i bambini rimasti in quel villaggio e in quella terra abbandonata. E, infatti, poco prima di partire, un altro peso si gravava sul cuore, un’altra domanda veniva lanciata dai grandi occhi scuri ed espressivi di quei bambini magrolini e innocenti, lasciati lì ad attendere un padre ed una madre. Erano davvero un peso morale fortissimo. Come muoversi, allora, anche per loro?
Avevamo la ferma intenzione di fare qualcosa, non solo individualmente. In tanti, infatti, desideriamo fare del bene. Il problema e sapere il come? Decidiamo, allora, di contattatare alcuni Padri Oblati di Maria Immacolata, religiosi che operano nel Congo da ben 75 anni e che, sin dal primo momento, hanno condiviso con noi le motivazioni e gli obiettivi del nostro ambizioso progetto, e ci hanno aiutano a realizzare questa promessa. Inizialmente, non é stato facile affrontare la diffidenza incontrata. Non é mai semplice persuadere gli altri delle proprie buone intenzioni. Malgrado le tante difficoltà , mia moglie ed io riuscimmo infine a coinvolgere altre persone. I problemi venivano condivisi. Nacque l’idea di associarsi in un’organizzazione, per coordinare gli interventi e raccogliere le forze, morali ed economiche, grazie alle quali attivare iniziative per i bambini del Congo.
L’A.N.A.C. – Associazione Nazionale Adozioni Congo “Pupilles du Congo” nasce così: dal moto del cuore di una madre e di un padre che numerosi amici hanno voluto condividere; dall'intimo desiderio di aiutare i nostri figli lontani solo geograficamente; dalla speranza che altre mamme ed altri papà possano in seguito aiutarli; dalla volontà di garantire a quei bambini, nella loro terra di origine, le condizioni per vivere dignitosamente e in autonomia. Infine, dalla convinzione che tutto ciò che umano ci riguarda e che ciò che ci rende davvero uomini, in realtà , è proprio la compassione.
Tutto questo é avvenuto grazie anche all'aiuto di amici e collaboratori, che credono in questa idea.
Raffaele Ciracì, Presidente Anac
Ebbene, tutte le volte che provo a rispondere in maniera ordinata a questa domanda, finisco per travolgere con un fiume di parole chi mi sta vicino, così grande è la motivazione che muove i miei pensieri e le mie azioni. Ma, facendo ciò, non posso mai chiarire veramente quel è stata la scintilla che ha messo in moto tutto, che ha permesso di realizzare la nostra associazione. E come se dovessi esprimere parole ineffabili che sono sepolte nel mio profondo, che non appartengono alla sfera del razionale, non fanno parte di un calcolo e non derivano dall’analisi, ma provengono dalle remote regioni del cuore, sgorgano spontaneamente dal centro vitale dei miei sentimenti, perché hanno la forza delle buone intenzioni e dei valori umani.
E infatti, a parole, non saprei proprio dire perché quella sera del 2002 rimasi attaccato al televisore e continuai a guardare il documentario sugli orfani del Congo, non so perché non cambiai canale, perché la loro sofferenza divenne mia. Spesso l'indifferenza è l’unica risposta istintiva di fronte a tanta sofferenza, il modo che l'uomo comune ha di sottrarsi all’immane disastro che alcuni popoli vivono, di rispondere alla propria impotenza, all’impossibilità di trovare soluzioni immediate a problemi così complessi e generali. Quel giorno, però, accadde che io rimanessi sveglio, accadde che sentissi forte il bisogno di far qualcosa. Sentì che a ognuno, anche all’uomo qualunque, é dato il compito di offrire il proprio contributo. Non potevo più rimanermene nel comodo rifugio della mia quotidianità . Non potevo più schermarmi con le armi dell’indifferenza per proteggermi dal sentimento di compassione che quel documentario aveva sollevato in me.
Mi trovavo, infatti, nel cuore della notte, e ascoltavo assieme a mia moglie, in silenzio, la tragica storia dei bambini-soldato nella Repubblica Democratica del Congo. Nel documentario si descriveva la storia di un grande paese africano soggiogato dalla violenza, governato dai signori della guerra, controllato attraverso antiche credenze tribali; una popolazione vittima dell’ignoranza e della superstizione. Il mattino dopo, io e mia moglie, che come me non aveva voluto “cambiar canale”, ci trovammo intenti a capire come muoverci. La domanda era: cosa fare? In mezzo a tanti dubbi, avevamo però una certezza: sottrarre da quell'inferno almeno un bambino. Iniziò così quel lungo e non meno doloroso iter per l'adozione internazionale. Non fu facile spiegare ai giudici il perché di quella decisione, come mai, pur essendo genitori di ben 5 figli, volevamo fortemente un bimbo, spiegare perché mai avremmo voluto tentare di adottare un bambino che non fosse il ‘nostro’. Questa parola, più di tante altre, mi fece pensare che il punto cruciale era proprio questo: i bimbi, tutti, sono un bene universale, che va accolto e difeso come prezioso patrimonio dell’uomo. Mia moglie ed io dicevamo: «I bambini, tutti, rappresentato il nostro futuro e la nostra speranza. Dietro ogni volto, bianco o nero, olivastro o giallo, si racchiude tutta la possibilità umana. Tutti quanti sono i nostri bambini. Appartengono a tutti e tutti dovremmo far qualcosa per difenderli».
Non sto qui a descrivere la valanga di emozioni e l'iter burocratico comune a noi e a coloro che decidono di adottare un bambino. Vale però la pena di raccontare che cosa accadde nel novembre del 2003 quando, finalmente giunti in Congo, abbracciammo la nostra bambina. Era tenuta in braccio da una suora che in lingua lincala le disse: questa é tua madre questo é tuo padre. Ma più di ogni parola, fu un gesto a stabilire il vincolo che ci avrebbe per sempre legati alla bambina. Fu un suo gesto, un suo dono: la piccola si aggrappò al mio collo fiduciosa, quasi fosse sempre stata in attesa di quel momento, quasi fosse stato un fatto abituale, naturale e famigliare. Quella bimbetta gracile e minuscola di 2 anni, in un istante e con un solo tenerissimo gesto, affidò la sua vita alle nostre mani, trasmettendo a noi quella forza e quel coraggio di cui aveva bisogno. Da allora, mia figlia Magda – così si chiama la nostra bambina – é la mia Africa, la mia memoria. È la promessa di un futuro di dignità e di speranza che trascende il nostro singolo caso, ma che si estende a tutti i bambini rimasti in quel villaggio e in quella terra abbandonata. E, infatti, poco prima di partire, un altro peso si gravava sul cuore, un’altra domanda veniva lanciata dai grandi occhi scuri ed espressivi di quei bambini magrolini e innocenti, lasciati lì ad attendere un padre ed una madre. Erano davvero un peso morale fortissimo. Come muoversi, allora, anche per loro?
Avevamo la ferma intenzione di fare qualcosa, non solo individualmente. In tanti, infatti, desideriamo fare del bene. Il problema e sapere il come? Decidiamo, allora, di contattatare alcuni Padri Oblati di Maria Immacolata, religiosi che operano nel Congo da ben 75 anni e che, sin dal primo momento, hanno condiviso con noi le motivazioni e gli obiettivi del nostro ambizioso progetto, e ci hanno aiutano a realizzare questa promessa. Inizialmente, non é stato facile affrontare la diffidenza incontrata. Non é mai semplice persuadere gli altri delle proprie buone intenzioni. Malgrado le tante difficoltà , mia moglie ed io riuscimmo infine a coinvolgere altre persone. I problemi venivano condivisi. Nacque l’idea di associarsi in un’organizzazione, per coordinare gli interventi e raccogliere le forze, morali ed economiche, grazie alle quali attivare iniziative per i bambini del Congo.
L’A.N.A.C. – Associazione Nazionale Adozioni Congo “Pupilles du Congo” nasce così: dal moto del cuore di una madre e di un padre che numerosi amici hanno voluto condividere; dall'intimo desiderio di aiutare i nostri figli lontani solo geograficamente; dalla speranza che altre mamme ed altri papà possano in seguito aiutarli; dalla volontà di garantire a quei bambini, nella loro terra di origine, le condizioni per vivere dignitosamente e in autonomia. Infine, dalla convinzione che tutto ciò che umano ci riguarda e che ciò che ci rende davvero uomini, in realtà , è proprio la compassione.
Tutto questo é avvenuto grazie anche all'aiuto di amici e collaboratori, che credono in questa idea.
Raffaele Ciracì, Presidente Anac
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