Elitis, poesia per liberare l’uomo

di Francesco Greco. Classico da vivo, Odisseas Elitis lo è anche, soprattutto a 15 anni dalla morte (1996), mentre si celebra il centenario della nascita (1911). Nonostante però il Nobel per la Letteratura nel 1979, non gode della popolarità che dovrebbe, specie in un paese, l’Italia, dove falangi di poeti della domenica scrivono versi senza aver letto non Keats o Hikmet ma almeno la bolletta del telefono.

Servirà a farlo scendere dalla nicchia e vederlo per quello che è: una delle voci più possenti e autorevoli dell’ultimo scorcio del Novecento l’operazione avviata da alcuni anni da Donzelli di Roma. Che ha appena mandato in libreria “E’ presto ancora”, pp. 334, € 21 (Collana Donzelli Poesia), una nuova edizione accresciuta per la preziosa, sobria curatela di Paola Maria Minucci. Che ha estrapolato dall’intera produzione del poeta greco i versi che più lo definiscono e abbozzano il suo spessore di “great poet“. Da “Orientamenti” (l’esordio del 1940) sino a “Da presso” del 1998, gli ultimi versi della sua vita.

Il contesto in cui Elitis si colloca è la classicità dell’ellenismo, con i temi immortali su cui si è speculato in ogni scomparto dell’arte e che la polis ha contaminato nella cultura dell’Occidente. L’operazione (condivisa con Ghiorgos Seferis) è stata quella di attualizzare quella ricca semantica e trascriverla trasferendola nella modernità in una koinè pregna di echi, illuminazioni, sottintesi. La sua poesia, sviluppata nell’arco di quasi 60 anni, se fosse possibile ricondurla a schemi e format, contiene l’assillo lacerante di liberare l’uomo dalle sue paure e angosce per invitarlo a vivere un’esistenza piena in sintonia con l’Universo, le sue creature, gli altri.

C’è nel suo verso un che di radioso e di carnale allo stesso tempo, una sensualità carsica, ontologica, che invita l’essere a respirare insieme alle cose. Per tendere all’intento, egli ha ridato verginità alle parole, le ha riscritte, reinventate, dando così vita a una lingua universale pronta per l’uomo. Per Elitis il pensiero e la parola sono tutt’uno. Lo ammette lui stesso in una sorta di : “Io sono uno di quei poeti che ha lavorato dentro la lingua. Non è un atto disgiunto. Non penso qualcosa e poi la traduco in lingua… Io voglio che il testo sia completamente vergine e lontano dall’uso quotidiano delle parole. Andrei ancora oltre, voglio che esso sia il contrario dell’uso quotidiano… Dispongo le parole in modo che ne risulti evidenziata la verità”.

Una fedeltà alla parola ripulita dalle incrostazioni che attraversa l’intera parabola poetica, osando l’azzardo di un uomo pacificato con se stesso, da “Orientamenti”, versi di formazione densi di un misticismo nudo, sino al disincanto a volte amaro dell’età adulta e gli anni conclusivi. “Si riconciliò con l’amarezza il mondo / Menzogne cadenti lasciarono le labbra / (…) Ritroviamo la testa tra le mani di Dio” (Orione). “E’ prima di conoscerla che la morte ci muta / da vivi con i segni delle sue dita addosso” (Patmos, da “Maria Nefeli”, 1978).

“Il cielo darà forma alle nostre viscere / E l’innocenza colpirà il mondo / Con l’acre nero della morte” (da “Monogramma”, 1971).

Elitis resta sino in fondo nella tradizione culturale che lo esprime e a cui ha abbeverato le sue profonde radici, intrisa di un fatalismo che mai sconfina nella rassegnazione, e che assegna all’uomo ogni potere sul proprio Destino giocando a “Carte scoperte” (opera del 1974), consapevole che se non lo si può plasmare come creta, almeno si può replicare colpo su colpo col cuore aperto e parole luminose e pure.

Posta un commento

Nuova Vecchia

Modulo di contatto