Libri: Martino da Como, ai fornelli dal Medioevo al Rinascimento

di Francesco Greco. I cibi dicono di noi più di quel che vorremmo dire. Da quel che portiamo in tavola passa la salute, l’umore, il sonno e un plateau di interfacce. Sono portatori di un affollamento semantico che, scannerizzato attentamente offre una gamma di chiavi di lettura per decodificare i passaggi storici e i loro protagonisti, eventi, usi e costumi di popoli. I cibi scrivono una storia parallela, segnano identità e culture, contaminano profondamente la memoria collettiva, la psicologia degli uomini, sentimenti, passioni. Chi si alimenta male è depresso, infelice e, come ammoniva Goethe, “pericoloso per gli altri e se stesso”. Martino da Como sapeva d’istinto tutto questo, tanto da meritarsi l’epiteto di “principe dei cuochi” (copyright del Plàtina). Fu un grande innovatore, osò altri orizzonti conformandosi ai format di un tempo in cui cercare costantemente la sfida oltre il proprio limite era trendy. Lasciò una traccia indelebile nel tempo. Da Lucullo a Pantagruel sino a Vissani, l’arte della cucina è sfuggente, elitaria, alchemica: occorre padroneggiarla con umiltà, ma anche incoscienza. E’ un Aleph oscuro che solo pochi “guru” riescono a praticare: un dono degli dèi. Martino ci riuscì conquistandosi un posto nella Storia. Non fu solo un cuoco ma anche un intellettuale raffinato compenetrato nel XV secolo che sparse la sua sapienza alle Corti europee del ‘400 (dagli Sforza ai Visconti di Milano fino alla Mantova dei Gonzaga, inclusa la Roma di Pio II e la Napoli degli Aragonesi e Gian Giacomo Trivulzio, ecc.).

La sua biografia romanzata, firmata da Maria Cristiana Magni, “Il principe dei cuochi”, Cairo Editore, Milano 2011, pp. 240. € 14 (collana Scrittori Italiani), si colloca allo snodo epocale fra il cupo bigottismo del Medioevo che colpevolizzava ogni piacere e il nitore abbacinante della bellezza del Rinascimento. E’ un romanzo più sapido e illuminante di tanti tomi ponderosi uguali come cloni, reticenti, di maniera. La penna arguta della scrittrice brianzola, attraverso la vita avventurosa di un “maestro” che seppe elevare la cucina ad arte, riesce a catturare l’anima di un tempo denso di premesse che poi i Lumi avrebbero “acceso” dando all’umanità altri valori e insospettati orizzonti. “Amante perduto del suo lavoro sempre in cerca di nuove creazioni”: Gualtiero Marchesi in prefazione coglie la grandezza di un uomo abile nell’arte dell’acconciare i cibi, dal semplice “zabaglione” al pranzo barocco di un ricevimento, capace di sottolineare i passaggi esistenziali e storici di nobili, uomini del clero, dame diafane (che s’innamorarono di lui: “era intimorito dall’idea di rivedere Laura: l’unica donna capace di far vibrare le corde del suo cuore…”), afferrando nel loro “mistero” quello di un’epoca inquieta in cui sarebbe stato blasfemo il solo pensare alla cucina molecolare che trasforma 12 g. di pesce in 120. Martino dè Rossi fu sodale del Plàtina (che si ispirava a Columella), e mise sulla carta le sue ricette “su fogli che farcisco di notte” (“De honesta voluptate et valetudine” e “De arte coquinaria”, ben 250, in un trattato di dietetica e buona salute.

Ketty Magni impreziosisce l’opera con 10 ricette d’epoca: dalle frittelle di salvia, “ottime servite come antipasto insieme ai salumi”, ai ravioli ripieni con petto di fagiano “se volete colpire i vostri ospiti con una ricetta dall’aroma spiccato”. Delicato l’incipit: le “immutabili costellazioni” avevano ispirato al maestro una ricetta: il “pastello volativo”. Poesia rispetto alla volgarità del XXI secolo in cui chef supponenti cucinano in tv da mane a sera sbobba da fast-food e al Grande Fratello mangiano con una fame antropologica. Altra categoria quella di chi sospirò a Bianca Maria Visconti: “L’odore del cibo vi renderà felice e il pensare del vostro cuore si farà più sereno”. O tempora, o mores…

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