di Francesco Greco. E’ un classico di fine ‘900 ma non lo ristampano. I suoi lettori lo cercano inutilmente nelle librerie di tutta Italia. Lo fanno anche da Facebook: una “community” di ammiratori chiede a Einaudi nuove edizioni. Curioso il destino dei grandi poeti, specie se nascono a Sud. Ogni secolo ne esprime 3-4, Salvatore Toma (1951-1987) è fra questi: ha marcato, con versi intrisi di sogno e magia, ma anche di crudo realismo, l’ultimo scorcio del Novecento, prima di morire giovane (36 anni), ma le nuove generazioni non lo conoscono: la società letteraria lo ha rimosso, cacciato nell’oblio e non ci si può avvicinare alla sua opera neanche in un momento storico in cui la poesia vive un rinnovato interesse.
La sciarada è servita: amato in Italia e in Europa (specie Francia e Germania), oggetto di tesi di laurea, nelle librerie di Maglie non si trova uno dei suoi 5 libri. I lettori devono rivolgersi alla Biblioteca Comunale. Non è stato facile ottenere un appuntamento con Paola Antonucci, la vedova di Toma. Una serie di forzature sulla sua figura l’hanno resa diffidente. Questa donna piccola e forte ha avuto una vita dura. Rimasta sola, ha svezzato e dato un futuro ai tre figli, Giovanni (32 anni), Pierluigi (29) e Tebe (24). Ha fatto il Magistrale, lavora in una scuola a Maglie. A chiedere di parlare di Toma c’è anche una poetessa, Lara Savoia, che sta organizzando, per dicembre, una serata-tribute a Salve (nel 2007 fu un successo quella voluta da Rossella Pulimeno) e Francesca Patella, studentessa con tesi di laurea sul “great poet”. Eccoci nella cucina di casa Toma, a bere un caffè con Paola e Giovanni. La moglie del poeta ama i gatti: ne ha una decina, inclusa una gattina color nocciola portata dal Brasile dal figlio maggiore, che lì s’è fatto la casa. Gli animali erano amati anche dal poeta, cani (li allevava) e uccelli soprattutto. Centrale la sua sintonia con la natura: marito e moglie facevano frequenti escursioni in bicicletta verso Uggiano la Chiesa. Ecco sul tavolo tutto quello che Toma ha scritto: da ragazzo sino alla fine improvvisa. Con emozione si sfogliano i quaderni, si osserva la scrittura infantile. Ecco le foto: un uomo bellissimo, dai lineamenti delicati. Semplice, estroverso, ragazzo di paese: si incontrarono a Lecce, a un corso per assistente sociale e si amarono subito.
Qualcosa s’è perso: la mania maleducata di chiedere libri in prestito e smarrirli. Salvatore amava i film western (specie di Sergio Leone): adorava ritagliare e incollare locandine e riprodurre fumetti con le battute di Clint Eastwood e Lee Van Cleef. Primo di 4 fratelli (Carlo, Antonio e Giuseppe), ironizzava d’avere nobili origini, di gente che si sudava la vita: era figlio di un fioraio, Cici, e ‘Ntuniètta, “mèscia de macazzìnu” (dei tabacchi) per 40 anni.
Toma poeta affonda le radici della sua poetica nel mondo classico (da Saffo a Catullo). Frequenta il prestigioso liceo “Francesca Capece” a Maglie. Il preside, Nicola De Donno, raffinato poeta in vernacolo e ricercatore, lo incoraggia, ma anche Claudia De Lorentis, che dirige la Biblioteca Comunale, apprezza i suoi primi scritti (un giorno le regalò una rosa rossa). E successivamente anche i critici Donato Valli, l’ispanista Oreste Macrì, Mario Marti. Con l’establishment letterario nazionale invece (Raboni,, Cucchi, Bellezza, etc.) ha rapporti difficili. “Le poesie – ripeteva spesso – non si dovrebbero spiegare: io scrivo con quelle quattro parole che so…”. Salvatore è un lettore vorace: i classici francesi e russi sono ancora nella sua libreria. Ma è l’incontro con i “maudit” a segnarlo in modo profondo. I versi di Baudelaire, Rimbà ud e Mallarmè assumono per la sua parabola esistenziale valore d’iniziazione, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Paola è la custode gelosa della sua memoria. Combatte contro finti amici che, con operazioni editoriali scriteriate hanno pubblicato le lettere a sua insaputa. “Quelle che mi scrisse – confida a scoraggiare altri avventurieri - le ho bruciate”. Sincera come lo è chi ha sofferto, da 24 anni tenta di spazzare via le leggende metropolitane. Come il suicidio. Toma morì di alcolismo, una patologia come tante altre. Tesi avallata purtroppo anche da nomi insospettabili del parnaso editoriale e letterario. La filologa Maria Corti (ma anche Antonio Errico), che non amava particolarmente questo oscuro poeta del Sud, e che nel 1999, su input di Giuliana Coppola, procede a una ricognizione dell’opera e dai 4 libri usciti con editori minori (Capone, Lalli, Ursini, Gabrieli), oltre che sulla rivista “Pensionante dè Saraceni”, di Antonio L. Verri, amico e sodale, assembla alcune poesie nel “Canzoniere della Morte” (Einaudi). Due edizioni vanno via con niente, una terza non è nei programmi dello struzzo in via Umberto Biancamano (Torino). “Toma voleva essere un personaggio, ma a un certo punto è stato risucchiato dal personaggio – conclude Paola - oggi và letto, capito e amato”. La voce trema: una nota di dolcezza rievoca l’immensità dell’amor perduto.