di Francesco Greco. Cos’accadrebbe se un brutto giorno un Sovrano paranoico e fuori di testa (alla “Autunno del Patriarca”, per capirci), emanasse un editto per bandire i cani “di tutte le razze, taglie ed età” dal Regno? E se oltre ai nostri amici a quattro zampe, a cui dicono manchi la parola (in realtà ce l’hanno e la usano meglio degli animali a due zampe per comunicare fra loro e con noi), la loro iconoclastia delirante si estendesse ai fiori, obbligando sudditi sbalorditi e refrattari a sradicare gli innocenti, profumati gelsomini (“non strillano quando muoiono; non piangono; non hanno voce”) dai giardini, calpestando con sprezzanti scarponi chiodati quelli che ostinatamente continuano ad affacciarsi fra i sassi aprendo al sole le loro tenere, allegre corolle? Abiteremmo in un mondo triste, dove la vita scivolerebbe grigia e monotona, vivere sarebbe mera pantomina.
E’ l’input creativo ed estetico di “Solo con un cane”, di Beatrice Masini, Fanucci Editore, Roma 2011, pp. 144, € 9.90. Sotto le sembianze di una favola deliziosa, la scrittrice milanese occulta abilmente una critica feroce alla modernità e agli archetipi che la reggono arandoli per bene nel sottosuolo più intimo. Lo svuotamento semantico dei valori, l’apparenza che domina in ogni anfratto del reale, l’avere più dell’essere che ispira le nostre squallide esistenze in un Occidente stremato dalle sue stesse contraddizioni, finito in deserto senza eco, una palude da cui non sa più come uscire. Per cui ci immedesimiamo nella ribellione di Miro (10 anni) esule dal Regno con l’amato cane Tito (3), e seguiamo trepidanti la loro odissea.
La Masini intreccia un apologo commovente contro tutte le tirannie, soprattutto quelle sottintese, carsiche (ognuno stili da sé la classifica: dalla tv-spazzatura ai paradisi artificiali sempre più sofisticati, senza scordare il gossip tracimante, il feticismo insulso, la virtualità come divinità e altri disvalori o surrogati). Il suo è un canto libero a favore di una vita diversa, dove l’essere umano rispetti se stesso, la natura, gli altri esseri viventi e viva in armonia con l’Universo e la sua energia. Così ci immedesimiamo in Miro e Tito “immersi in un nero che non ci si crede”, soffriamo per la loro odissea in un mondo dove “hanno spento le stelle”, lo status di esuli, stranieri in labirinti infidi trasfigurati in un’iniziazione alla vita: “Andavamo di giorno, riposavamo di sera: avevo imparato che marciare di notte è pericoloso e insensato”. E avvertiamo un brivido nella schiena quando a comunicare l’ostracismo a scuola arriva “il soldato in alta uniforme (…) piantando forte il tacco nel pavimento”.
La scrittrice è un’affermata giornalista, e si vede nell’ossificazione rispettosa della parola, che guadagna in energia e solarità filologica, ricchezza affabulatoria, efficacia comunicativa e coinvolgente. Scuola hemingwayana. In certi squarci la levità evocativa e scarna del tocco fa intravedere i Fratelli Grimm, Andersen, Rodari. “Solo con un cane” è una favola solo nell’impostazione, nel canovaccio: disseminate fra le righe di una scrittura rapsodica allegorie nude e pure con cui si entra istintivamente in sintonia, una critica a tratti feroce, pur nei passaggi lirici, emozionanti, alla civiltà allucinante che ci siamo dati, povera di valori e con una socialità di maniera, con le sue icone perverse, i feticci mitridatizzanti che ci rendono afoni e distanti agli altri, costringendoci a una solitudine esistenziale, leopardiana, che morde come la colica più subdola. La salvezza? Beatrice suggerisce l’innocenza del cuore del bambino in noi, la purezza del sentimento, la fratellanza cosmica e di sangue di un nuovo Rinascimento, l’alba degli uomini che si mettono in discussione per ripartire. Messaggio condiviso, senza se e senza ma.
E’ l’input creativo ed estetico di “Solo con un cane”, di Beatrice Masini, Fanucci Editore, Roma 2011, pp. 144, € 9.90. Sotto le sembianze di una favola deliziosa, la scrittrice milanese occulta abilmente una critica feroce alla modernità e agli archetipi che la reggono arandoli per bene nel sottosuolo più intimo. Lo svuotamento semantico dei valori, l’apparenza che domina in ogni anfratto del reale, l’avere più dell’essere che ispira le nostre squallide esistenze in un Occidente stremato dalle sue stesse contraddizioni, finito in deserto senza eco, una palude da cui non sa più come uscire. Per cui ci immedesimiamo nella ribellione di Miro (10 anni) esule dal Regno con l’amato cane Tito (3), e seguiamo trepidanti la loro odissea.
La Masini intreccia un apologo commovente contro tutte le tirannie, soprattutto quelle sottintese, carsiche (ognuno stili da sé la classifica: dalla tv-spazzatura ai paradisi artificiali sempre più sofisticati, senza scordare il gossip tracimante, il feticismo insulso, la virtualità come divinità e altri disvalori o surrogati). Il suo è un canto libero a favore di una vita diversa, dove l’essere umano rispetti se stesso, la natura, gli altri esseri viventi e viva in armonia con l’Universo e la sua energia. Così ci immedesimiamo in Miro e Tito “immersi in un nero che non ci si crede”, soffriamo per la loro odissea in un mondo dove “hanno spento le stelle”, lo status di esuli, stranieri in labirinti infidi trasfigurati in un’iniziazione alla vita: “Andavamo di giorno, riposavamo di sera: avevo imparato che marciare di notte è pericoloso e insensato”. E avvertiamo un brivido nella schiena quando a comunicare l’ostracismo a scuola arriva “il soldato in alta uniforme (…) piantando forte il tacco nel pavimento”.
La scrittrice è un’affermata giornalista, e si vede nell’ossificazione rispettosa della parola, che guadagna in energia e solarità filologica, ricchezza affabulatoria, efficacia comunicativa e coinvolgente. Scuola hemingwayana. In certi squarci la levità evocativa e scarna del tocco fa intravedere i Fratelli Grimm, Andersen, Rodari. “Solo con un cane” è una favola solo nell’impostazione, nel canovaccio: disseminate fra le righe di una scrittura rapsodica allegorie nude e pure con cui si entra istintivamente in sintonia, una critica a tratti feroce, pur nei passaggi lirici, emozionanti, alla civiltà allucinante che ci siamo dati, povera di valori e con una socialità di maniera, con le sue icone perverse, i feticci mitridatizzanti che ci rendono afoni e distanti agli altri, costringendoci a una solitudine esistenziale, leopardiana, che morde come la colica più subdola. La salvezza? Beatrice suggerisce l’innocenza del cuore del bambino in noi, la purezza del sentimento, la fratellanza cosmica e di sangue di un nuovo Rinascimento, l’alba degli uomini che si mettono in discussione per ripartire. Messaggio condiviso, senza se e senza ma.