Esce per Vallecchi il diario di viaggio di Tito Barbini

di Francesco Greco. “La storia comincia a Buenos Ayres… bellissima donna vestita di raso rosso con tacchi altissimi… “ dove “l’alito rovente riempie ogni spazio fra un albero e l’altro…” e vaga pigra e sensuale tra “i caffè dell’Avenida de Mayo… e migliaia di morti senza terra per la sepoltura… le Ford Falcon senza targa… gli squadroni della morte del regime… la ferocia di stampo nazista…” in un momento storico in cui “sono molti i modi in cui si può declinare la disapprovazione per l’atteggiamento della gerarchia della Chiesa argentina nei confronti dei vescovi e dei preti che durante la dittatura provarono a opporsi”.

Ci sono ombre più reali del reale, perché raccontano come un fiume in piena il loro vissuto dolente e tragico, ma anche gioioso spuntando da ogni angolo di strada, montagna, lago, cielo, ansiose di depositare da qualche parte il fardello troppo ingombrante di un affollamento semantico, una koinè a fatica trattenuta. Ombre che nel tempo conservano intonsa tutta la loro ricchezza dialettica (come in “Adan Buenosayres” di Leopoldo Marechal) e che amplificano i loro passi in mille echi, versi, canti, illuminazioni, segreti, mormorii, perché “le storie sono abiti che non ci stanno mai a pennello”.

“Il cacciatore di ombre” (in viaggio con Don Patagonia), di Tito Barbini, Vallecchi, Firenze 2011, collana “Off the road”, pp. 276, € 13, è un libro fatto di ombre: a ogni pagina spuntano senza requie e chiedono al lettore di fermarsi e ascoltare le loro storie perché “l’immaginazione è la prima fonte della felicità umana” (Leopardi) e c’è il rischio che svaporino se qualcuno non le trattiene sulla carta, perché “cosa rimane di un paese che non ha memoria?”.

Il salesiano Alberto Maria De Agostini partì da Pollone (colline del Biellese) nel 1910. Uomo borderline, inquieto, non poteva che avventurarsi in cerca dell’“umanità più disgraziata della Terra”, inoltrarsi in terre dove, come diceva Borges “non c’è niente”, inventandosi una vita fuori dai parametri culturali della sua formazione. Fu non solo uomo di Chiesa ma anche esploratore, geografo, scalatore. Un Continente intero lo conosce come Don Patagonia e ha lasciato tracce che un secolo Barbini ha voluto cercare e restituire intatte alla loro grande forza comunicativa come in una nuova Spoon River fra l’Argentina e il Cile. Da Borges a Chatwin passando per Paul Theroux e Francisco Coloane.

Lo stile di Barbini (che da ragazzo passava ore davanti al mappamondo) è lineare, scintillante, evocativo: pare quasi lo script di un film neorealista in cui niente è sottinteso, sfumato, ma tutto è al contrario tremendamente materiale, e la materia trascende l’anima di una terra dove i bianchi sono stati capaci di tutte le loro insensatezze, avidità, orrori. Password naturalista dunque ma attraversata anche da accenti di un lirismo fiabesco che emoziona il lettore. Ecco dunque “il ragazzo con la tonaca e il basco nero” sul ponte del traghetto nella primavera australe “senza il volo degli albatros” diretto verso “una terra scontrosa, avara di sé, innamorata del proprio silenzio, chiusa nella buccia della propria solitudine”. Il primo, forse decisivo impatto è con l’emigrazione “folla grande come l’Italia che cent’anni fa si è mossa per venire in America”.

Ma la dittatura che scaraventava i “nemici” nell’Oceano Pacifico è solo l’ultima interfaccia di una terra dove la tragedia è ontologica e inspiegabile come la sua bellezza. Pioniere di una Chiesa che si sporca le mani (e non alla Marcinkus), quella che don Bello definirà un secolo dopo “col grembiule”, Don Patagonia (fratello dell’editore De Agostini) testimonia, anche con la scrittura (“Ande Patagoniche”), di “vittime e carnefici”, di tribù di indios scomparse nella Terra del Fuoco, fra Capo Horn e lo Stretto di Magellano, di coloni europei che li hanno spogliati di tutto, anche della dignità. Un libro necessario per chi, anche da laico, concepisce l’esistenza in chiave militante e come Luis Sepùlveda pensa che “vivere è un magnifico esercizio”.

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