di Francesco Greco. Non furono i fratelli Lumière nel 1895 a inventare il cinema ma gli eterni ragazzi, i Peter Pan degli anni Sessanta. Il contesto: il boom economico dopo gli anni della guerra e la faticosa ricostruzione, il rifluire possente di nuova energia che folgorò il Paese, la ricerca di archetipi inediti da praticare per una rinascita interiore dopo l’asprezza sanguinaria degli “ismi” che aveva insudiciato il “secolo breve” formattando ogni sedimentazione.
Mentre il Neorealismo donava gli ultimi, impressionanti bagliori, sul cui ceppo si sarebbe innestato il cinema futuro (dalla commedia all’italiana in chiave agrodolce a quello più espressamente politico e di denuncia sociale ma anche gli spaghetti-western), una generazione nata nei primi anni Cinquanta affollò semanticamente lo specifico filmico a cui quasi diede la “mission” di surrogare il reale in tutte le interfacce, dalla favola alla “visione”. E’ il bambino protagonista di “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore a contenere il lato filologico di un “manifesto politico”, ma anche, seppure in chiave estetica radicalmente diversa, “Roma” di Fellini ha un ampio nucleo epistemologico.
Quella generazione dunque riscrisse l’etimologia più profonda del cinema, anzi, del Cinema. Che si trasfigurò in altro da sè: eterogenesi dei fini. E offrì al contempo una nuova lettura e decodificazione del reale: costume, spiritualità, sesso, politica, ecc. che non poteva non irritare il potere, che s’inventò il mantra: “I panni sporchi laviamoceli in casa”. Ma ormai, come dire “alea iacta est”: la macchina non si poteva fermare, e le illuminazioni e le urla, echi e risonanze, i sogni e le visioni, i mulinelli da allora si sono propagati sino al XXI secolo contaminando la vita, la quotidianità, la nostra essenza più intima.
Tutto dunque incubò in quei mitici Sessanta, in quelle bolge dantesche piene di fumo che furono le sale cinematografiche, al centro e in periferia, che divennero luoghi d’iniziazione (al fumo, al sesso), ma anche di formazione del sapere, della coscienza civile, l’identità, la memoria), fra un rutto di gazosa e una cicca volante. Tutto ciò ha a che fare con la nostalgia, quel sentimento metafisico eppure sì materiale che regge l’immaginario collettivo e che, ma questa è un’idea soggettiva, respinge con forza la subcultura della tv-spazzatura (che non a caso esorcizza il cinema d’autore che, alla “vade retro, Satana!”, non programma mai, e non per caso).
E’ proprio la “nostalgia, il vintage, l’eterna giovinezza” la password che consente di entrare in “I mille volti del sogno” (La mia vita nel mondo del cinema da spettatore a produttore), di Carlo Macchitella, Marsilio, Venezia 2012, pp. 256, € 18, collana “Tempi”. Una tenera, toccante, grata dichiarazione d’amore alla “decima musa” che ha formato la sua, e nostra, esistenza. Nato nel 1952 a Firenze, Macchitella da ragazzo fu affetto dal morbo blu. Passò l’infanzia tra lo stadio, a vedere la Fiorentina (il padre fu terzino del Bari e amico di Fulvio Bernardini), e i cinema “vicino casa” dove lo portava la madre, alcuni dei quali non ci sono più (Abc, Lux): non è difficile immaginar la sorte: centri commerciali.
Forse ha ancora i calzoni corti e manco un pelo di barba quando ha già incontrato la poetica cool di Fritz Lang di “Metropolis”, gli “Uccelli” cattivi di Hitchcock innamorandosi della “sua musa di riferimento”, l’algida Grace Kelly, ma anche “il cupo senso della morte e le buie notti scandinave” di Ingmar Bergman come le commedie sofisticate di Billy Wilder, “A qualcuno piace caldo”, per esempio, con la Monroe e Jane Russell.
Un’ampiezza di input che non poteva non riverberarsi nel vissuto, arandolo in profondità. Nel passaggio da spettatore a produttore indipendente (“Passione”, di e con Jhon Turturro, 2011, per citarne uno), Macchitella è stato programmatore Rai, e forse finalmente abbiamo trovato il responsabile delle nostre occhiaie da cinefili: ci ha fatto approssimare, nelle umide notti italiane, a Kitano e Kurosawa, i fratelli Coen e il primo Tarantino, le cinematografie “minori”, nonché la prima, deliziosa opera di Steven Spielberg, “Duel” e il baccano dell’Est di Kusturica. E anche direttore generale di Rai Cinema e presidente di 01 Distribution.
Su questo ricco background edifica una gallery del cinema di ogni tempo, un “tribute” più che un “viaggio sentimentale” che come minimo andrebbe adottato nelle scuole per dare un sapido retroterra ai ragazzini che oggi scaricano selvaggiamente di tutto dalla Rete, invaghiti del 3d. Macchitella analizza, contestualizza, crea scenografie e contrappunti servendosi di aneddoti, interfacce, frammenti di ricordi, lacerti di memoria. E il lato emozionante, a tratti commovente, è che sovrappone il suo immaginario a quello di milioni di persone, facendolo combaciare perfettamente. Sdogana, come ci si aspetta che faccia, “alcuni esordi italiani travolgenti”: da “Accattone” (Pasolini) a “Nostra Signora dei Turchi” (Carmelo Bene, che fece debiti per girarlo a casa sua). Così socchiudi gli occhi e col ronzio del vecchio proiettore “vedi” il travaglio esistenziale di Truffaut, la biografia confusa alla vita di Polanski a cui le belve ammazzarono la moglie incinta di cui era innamoratissimo, altre bestie gli avevano ucciso i genitori ad Auschwitz, l’amore pudicamente confessato per Stefania Sandrelli “bellezza della porta accanto”. Fino all’immagine della palla di ferro che travolge e abbatte i musicisti indisciplinati di “Prova d’orchestra” di Fellini. Un’allegoria nuda e pura, una premonizione: ognuno la chiami come vuole. Terzani ce l’ha insegnato: ogni fine è un inizio.