Elitis, se il poeta afferra il tepore della gioventù

di Francesco Greco. Da Saffo a Isabella Morra, passando per Leopardi, Holderlin e Hikmet, ha sempre incuriosito il backstage, “l’officina” dei grandi poeti. Come lavorano? Con quale metodo? Di quali strumenti filologici si servono per sgrossare le parole dando loro forma e ombra, sintesi e luce, affinchè affrontino l’immortalità imperitura?
Il poeta greco Odisseas Elitis (1911-1996, Premio Nobel per la Letteratura nel 1979), un classico della poesia dell’ultimo scorcio del Novecento, ha avuto la geniale trovata di aprire la bottega al lettore di versi d’ogni tempo e luogo per soddisfare il desiderio. Forse è questo, o anche questo, l’input de “Il metodo del dunque” (e altri saggi sul lavoro del poeta), Donzelli, Roma 2011, pp. 170, € 16 (Collana Saggine), nuova edizione accresciuta curata da Paola Maria Minucci, con la deliziosa prefazione di Iulita Iliopulo, vedova del grande poeta.
Il curioso incedere del tempo con gli intrecci folli e irrazionali degli eventi fanno coincidere l’uscita del libro con la sofferenza della Grande Madre che ha donato i suoi archetipi alla cultura occidentale, contaminando la politica, la medicina, l’arte, l’immaginario, l’epos e l’etos. Per cui nelle pagine di Elitis (che nacque a Creta e visse ad Atene) non possono non riecheggiare le sofferenze del popolo che ha inventato la democrazia. E man mano che procedi, ti convinci che oggi non possiamo non dirci tutti greci e soffrire con la gente di Atene in piazza e sulle barricate.
Elitis concepisce la poesia come una continua sfida dell’uomo per cogliere l’alito caldo della gioventù, dell’animo incorrompibile degli uomini, il loro desiderio di eternità, ma anche, da Platone a Aristotele, di un senso a se stesso, la vita, le cose. Costanti che convergono in un brainstorming che confonde e con cui il poeta ridà nuova vita alle parole quotidiane, liberate finalmente dalla ruggine del tempo e dalla corruzione del relativismo indotta dalla modernità. Elitis scopre “il minuto segreto delle cose” e usa le parole per dar loro una potenza maieutica in grado di sfidare l’eternità.
Con un approccio epistemologico “totale”, cioè vestendo i panni non solo del poeta ma anche del saggista, dell’aforista, del pittore, ecc., Elitis riesce a catturare sulla carta la luce delle “segrete sillabe” che l’uomo cerca magari anche senza saperlo per tutta la vita nell’ingenuo tentativo di sconfiggere il tempo “nostro tiranno quotidiano”. Qual è il suo compito sottinteso? “Rischiare movimenti dell’anima improvvisi e incontrollati, provocare, dare al suo stile, alla sua lingua, quel sussulto tipico del corpo giovane, lo slancio dell’aquila verso l’alto” in cerca di quello che egli chiama “l’Insignificante”, ma che è al contrario affollato di semantica come “il mare che si affaccia dal muretto bianco di calce di una chiesa e una ragazza scalza cui il vento solleva la veste… ”.
In postfazione, la donna che amò lo contestualizza in una natura che diviene poi elemento della sua poesia, “alberi di parole” in una terra, la Grecia, dove scopre “l’equilibrio originario del mondo naturale e spirituale”, nelle Cicladi dove si conosce “l’abbondanza del poco”. E frugando fra le pagine quasi si ascolta “il rumore delle onde”, si respira “l’odore del vento”, si osserva “l’ombra dell’ulivo”, sfiorati “dal candore della calce”. Forse le stesse sensazioni che furono di Omero e i suoi immortali eroi, che afferrando “l’Insignificante” si consegnarono, come Elitis (ma anche i suoi sodali: Rilke, Ungaretti, Picasso, Mozart, ecc.) alla memoria degli uomini che furono, e che verranno.

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