Sabella, l’uomo che parla con le pietre


di Francesco Greco. Ecco l’uomo che parla con le pietre. Le tocca con dolcezza, le tagliuzza con una cesoia – il suo solo strumento di lavoro - ormai senza guardarle, e le posa delicatamente al loro posto. Mauro Sabella vive ad Alessano e da vent’anni intrattiene con la pietra un rapporto da “innamorato”: “Ho scoperto la pietra da piccolo – confida - e non me ne sono più liberato…”. Le scava fin dentro all’anima, tira fuori il loro colore ancestrale, sprigiona la forza antica che possiedono, l’energia immutata da milioni di anni. Quel che si dice: un’eccellenza di Puglia. Per meglio dire: quando si parte l’artigianato e si slabbra la propria sensibilità fino a toccare le alte vette dell’arte, talvolta della poesia.
E’ appena tornato dalla scuola elementare del paese di Cesare Raio (naturalista) e don Tonino Bello (“costruttore di pace”): ha tenuto uno stage ai ragazzini e ai loro insegnanti. Altri ne terrà in tutto il Salento, ormai gli impegni incalzano: si resta incantati nel sentirlo parlare della sua arte. Siamo capitati per caso nella sua “bottega” di primo pomeriggio, del tutto digiuni di cosa si può fare, le emozioni che si possono evocare con le pietre spezzettate a quadratini da un centimetro di lato, a rettangolini minuscoli, triangolini delicati. Siamo usciti che era buio da una full immersion appassionata: ora sappiamo cos’è il bizantino, il greco, il palladiano, il veneziano, l’opus vermiculatum, il rosso Verona, il rosa Persia, la pietra di Trani, di Soleto, di Alessano, ecc. e tutte le sfumature di un’arte antica.
Mauro Sabella è un timido: per rompere il ghiaccio racconta un episodio forse inedito di don Tonino Bello (il 20 aprile cadono i 19 anni della morte). Studente di liceo negli Ottanta a Tricase, quando era impreparato, con altri due amici, “nargiava” (marinava la scuola) e quando vedevano spuntare la sua 500 azzurra si nascondevano dietro a un muretto di pietre a secco, lui accostava e suonava il claxon: il sedile accanto al guidatore non c’era, al suo posto una pila di libri. Salivano e li riportava ad Alessano. L’artista è timido (in un tempo in cui tutto è segno e il segno surroga tutto non firma le sue opere!) e generoso: “Sentivo di avere un debito con lui per quei giorni lontani…”, si schermisce. Ha realizzato un ritratto e lo ha regalato al Convento dei Cappuccini del paese. Poi, per par condicio, un San Pio lo ha regalato alla Chiesa Madre intitolata al SS. Salvatore.
Un artista appassionato, ben inserito nella modenrità: tramite blog e forum dialoga con tutto il mondo sulla concezione del mosaico: “Non sulla tecnica – chiarisce – quella è personale, soggettiva, ognuno è geloso della sua…”. Ed è quella che fa la differenza. Ecco le sue opere più riuscite: uno Juppiter maestoso, regale, che emana forza e potenza, un Cristo che ti segue con lo sguardo ovunque vai, e poi vasi enormi tipo giare costruiti con pazienza, tassello dopo tassello, figure femminili immateriali, evocate dalla luce. Spiega la sua arte e intanto taglia la pietra a occhi chiusi: sta lavorando alla “Creazione” di Michelangelo. Ogni opera ha il tocco della soggettività nell’interpretazione. In questa vuole annullare le differenze fra Mosè e Dio, che si sfiorano le mani e i personaggi di contorno: “Sono tutti uguali, anche loro sono figli di Dio…”.
Sabella odia le cornici, perchè trattengono il significato dell’opera, che invece, osserva, deve uscire e liberarsi nell’aria, nel contesto, contaminandolo, impregnandolo. “Il mosaico deve riflettere la luce, intercettarla e spanderla tutto intorno – spiega – solo così può usire dai suoi confini… Se non sento la polvere fra le mani non ho sentore dell’opera…”. Parla, spiega, precisa, divaga, e intanto spezzetta il marmo, la calda pietra di Alessano: l’opera ce l’ha tutta nelle mente nel momento stesso dell’ideazione, dopo, la realizzazione, è solo un fatto di manualità. Piano piano il mosaico prende forma. L’artista è molto esigente con se stesso: cerca un’idea di bellezza sino alla sua rarefazione, al farsi metafisico. La sua lotta con la pietra per domarla, piegarla (a volta la ibrida col metallo), è la stessa degli scalpellini del barocco: e richiama la filosofia di quel periodo in cui l’uomo europeo tentò, domando appunto la pietra, di dominare il suo stesso destino e alla fin fine anche la morte. Un azzardo quasi blasfemo che ha lasciato opere monumentali (dal barocco leccese a quello siciliano), letterarie (Vittorio Bodini), con riflessi nel teatro (Carmelo Bene, Eugenio Barba, ecc.), pittoriche (Tiepolo, ecc.) ovunque in Europa.
Tutto questo può essere assimilato come il background inconscio dell’arte di Sabella. Nel suo tirar fuori la dolcezza, la sinuosità della pietra c’è tutto il pathos dei mosaicisti ravennati del periodo bizantino. Pare ci fossero, all’epoca, sette gradi di maestranze: l’ultima era lo schiavo che poneva il mosaico dove era stato pensato. L’artista pugliese caratterizza la sua opera contestualizzandola nella terra che lo esprime: ecco allora la prevalenza dei colori caldi del Salento: rosa, rosso, marrone, giallo, botticino (il colore della “chianca”). Sublimando le loro sfumature nella tecnica “bizantina” che al suo zenith fa pensare alle opere della Grecia classica (lo stile “greco”). “Uno mosaico deve essere vissuto, calpestato: solo camminandoci sopra ne cogli tutte le sfumature e lo capisci a fondo…”. Lo lasciamo là a tentare di domare la pietra come fosse un animale brado, e a catturare la luce per farla vivere: “Una sfida che devo vincere – conclude – perché la luce è tutto e senza tutto è morto. Solo con la luce la pietra vive. Ogni giorno mi confronto con la luce, non devo aver paura…”.

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