Storia di Vera e Pista, vedi alla voce “amore”

di Francesco Greco. Vedi alla voce amore. Restituito alla primordiale etimologia. Scrostato dalla ruggine relativizzante della contemporaneità. Pista è un chirurgo ortopedico sopravvissuto all’esperienza del campo di concentramento, Vera una donna energica, bella anche nella vecchiaia, di “un’eleganza innata”, “un po’ Liz Taylor, o Lana Turner. “Ai miei occhi erano divi del cinema, affascinanti e misteriosi”. Due ungheresi, della piccola borghesia ebraica di Budapest, che vivono in Danimarca e che curiosamente si danno del “lei”, “cosa assolutamente inusuale fra gli ebrei ungheresi della loro generazione, specie poi se coniugati”: “Ha dormito bene?”, fa lei premurosa: “No, non ho dormito tanto bene. E lei?”, risponde lui innamorato.
E’ l’incipit di “Un amore assoluto” (Una storia vera), di Johanna Adorjàn, Cairo editore, Milano 2011, pp. 172, € 15, traduzione di Margherita Belardetti. Romanzo che corre su più livelli, emersi e carsici, intreccia e contamina la storia con le sue asprezze, le parabole esistenziali, popoli e culture, nel canovaccio del ‘900, il “secolo breve” che ha scaraventato l’Europa in un’immensa tragedia politica, culturale, etica. I cui echi e risonanze, come infidi mulinelli provocati dall’urlo di Munch, si riverberano sino a noi, disarticolando il nostro immaginario, chiamati a rendere conto di follie ereditate col sangue. Personali e collettive. Inspiegabili. Come quella qui raccontata.
La scrittrice infatti è una giornalista nata a Stoccolma nel 1971, è figlia di madre tedesca e padre ungherese, ha studiato regia operistica e teatrale in Germania, vive a Berlino e scrive sul Frankfurter Allgemeine Zeitung. Si ritrova “erede” di un non-sense, qualcosa di irrazionale, d’inaccettabile, che sfugge alla sua formazione culturale. Quei due anziani infatti sono i suoi nonni paterni. Si sono scelti, sposati (7 agosto 1942), amati una vita. Attraversano una vecchiaia come tante, ordinaria, in una casetta linda e ben tenuta, con qualche acciacco (soprattutto lui alle prese con una patologia che illanguidisce i ricordi). Il cane Mitzi (affettuosa, flemmatica, non particolarmente ubbidiente), il giornale ogni mattina (ma non di domenica), Bach alla radio, un cugino che preme per fare visita l’indomani e tenuto lontano con la scusa di analisi cliniche imminenti.
Eppure questi due vecchi abitudinari, cittadini di un’Europa devastata dagli “ismi”, che forse non c’è più se la patologia non ha cambiato semantica sotto i nostri occhi e dobbiamo solo legittimarla a noi stessi, ebbene, in un giorno dell’autunno 1991, il 13, una domenica calda di sole, hanno preso una strana decisione. Lei porta il cane dai vicini, lui fuma le sue sigarette e ascolta il concerto alla radio. Lei sfaccenda per casa affinché la trovino in bell’ordine, lui siede alla sua poltrona col plaid sulle gambe.
Johanna per prima non crede a quel che è accaduto (che ovviamente non sveliamo). I suoi parametri culturali non lo spiegano, i lacerti di racconti, quel poco che hanno detto di loro, che la mente richiama arrancano senza riuscire a penetrare il mistero, non trova una chiave di lettura, una password per accedere nella sciarada e decodificarla. Così afferra il filo del gomitolo barocco delle vite dei nonni e pian piano lo dipana. Col risultato di capirne ancora meno, perché la love story edifica postulati che rendono il “the end” ancora meno spiegabile e accettabile. La bellezza del romanzo è nei continui intrecci di flash-back temporali, le interfacce che compongono il mosaico di un’Europa entrata nella spirale dei suoi istinti peggiori.
Chissà – riflette la nipote – se davanti al funzionario si promisero vicenda di restare uniti finché morte non li separasse o, come si dice in ungherese, finché vanga, zappa o grande campana non li separasse?”. Già, chissà? Intanto scorre il film in bianco e nero degli orrori: “Le SS sparavano a chiunque si fermasse, cadesse per lo sfinimento o semplicemente si chinasse per allacciarsi una scarpa. Bambini, donne, uomini, non facevano alcuna differenza…”. Le Croci frecciate che negli ultimi mesi di guerra ammassano ebrei sulle rive del Danubio, li fucilano e li spingono nel fiume. Furono 600mila gli ebrei ungheresi rastrellati e mandati nei lager: solo ad Auschwitz ne giunsero 430 mila, “ben nutriti, in buona salute… i tedeschi faticavano a tenere il passo con gli omicidi”. Ecco Johanna seduta in un caffè di Budapest a chiacchierare con Erszi, la migliore amica di sua nonna per sapere della sua giovinezza e dell’incontro con Pista a un concerto (le va all’Opera sin da piccola: abitava vicino).
E la ragione che non riesce a spiegare una scelta estrema, dettata proprio dalla ragione spinta alla sua nuda essenza (e non è stata proprio la ratio il sostrato culturale degli “ismi”, della “banalità del male” che rischia di autogerminarsi: “…qui ogni giorno devono cancellare svastiche sulle pareti della camera a gas”?), forse è la conclusione di un delirio durato un secolo, sospeso fra Est e Ovest, e che ha segnato senza requie alcune generazioni, che dei loro fantasmi si sono liberati (viene alla mente Primo Levi che se ne va nell’87 buttandosi nella tromba delle scale) appunto incamminandosi su una strada senza ritorno. Lo stile della giornalista è scarno, essenziale, poco aggettivato: una storia come quella che gli è toccata in sorte doveva essere raccontata solo come lei ha fatto. Un modo di esorcizzare gli incubi che s’è ritrovata nel dna. Ci sarà riuscita?

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