Ecco la mafia in chiaroscuro dalla mattanza a Provenzano

di Francesco Greco. Ecco uno di quei libri che ti mordono lo stomaco come un’ulcera sanguinante. Sfogli e non puoi fare a meno di pensare a Primo Levi, se questo è un uomo e la banalità del male. A homo omini lupus e alla stupidità più profonda degli oceani. Ma ti riecheggiano nella mente anche le parole di tutti quei magistrati coraggiosi che, dal tritolo di Capaci a quello di via D’Amelio (e sono passati vent’anni), passando per i Georgofili e la mattanza di Rosarno, ripetono, vox clamans nel deserto, che lo Stato non ha poi così tanta voglia di combattere la malapianta che ha delocalizzato al Nord, ha penetrato la Borsa coi capitali sporchi, ha fatturati inimmaginabili quantificabili per difetto, punta a Expo 2015 e magari alla Tav e alla 275 a 4 corsie. Più che altro si limita all’ammuina borbonica, molto scenografica, ma senza effetti reali, se risponde al vero la notizia della riduzione del budget alla Dia, progressivo negli ultimi dieci anni: da 28 a 10 milioni. Della serie: le nozze coi fichi secchi. Poi ti viene alla mente Giuseppe Ayala quando ricorda che senza le connivenze dentro lo Stato la gramigna sarebbe già stata estirpata. Pendant al boss Vito Palazzolo, nel 2010: “I boss non potevano fare tutto da soli: chi poteva conoscere gli spostamenti di Falcone e Borsellino? E infine Sciascia: “Chi ha paura muore ogni giorno”, e poi Falcone: “Come tutte le cose di questo mondo anche la mafia ha un inizio e una fine”. Ecco, Sciascia e Falcone: quelli che forse più di tutti hanno decifrato il fenomeno con un format antropologico, perché, come ricorda ancora Ayala, “nessuno meglio dei siciliani conosce i siciliani”.
E dunque sfogli “Mafia” (dalla Mattanza a Provenzano), Edizioni Zero91, Milano, 2012, di Costantino Margiotta, pp. 175, euro 39 (una riedizione del 2007, le immagini coprono un arco che va dal 6 gennaio 1980 all’11 aprile 2006) e cerchi una password per entrare in un universo dall’acre odor di tritolo, di doppiezza, di non-detti, di paura stratificata, di ambiguità, di menzogna sublimata. Sfogli e sfogli e non la trovi, non la vedi dietro foto che urlano “contro uno Stato latitante”. Rigorosamente in b/n e non firmate: ecco un indizio, il b/n è il passato luttuoso, sudicio, boss dietro ai santi patroni, bambini sciolti nell’acido, vedove che vorrebbero perdonare “ma si devono inginocchiare”, figlie che accusano i padri destabilizzando un patriarcato di per sé relativizzato. Un oscuro blob che ci fa vivere nel Medioevo e che dovremmo rimuovere per entrare nella modernità. Sfogli e intravedi un ricordo grato a chi ha s’è immolato in nome della legalità e della dignità di tutti noi non sempre mèmori e anzi facili alla rimozione. Sfogli ancora e dove trovi una chiave d’accesso per entrare nella viscida sciarada? Sotto la voce “ringraziamenti”. Lì Margiotta parla per tutti i meridionali per bene, e forse tutti gli uomini di buona volontà stanchi di violenza e corruzione, di paura e sudditanze: “Vorrei ringraziare i miei genitori, miei maestri di vita…”. E leggi questa sensibilità, delicatezza d’animo in un mondo che non vorrebbe avere più maestri, li ha destrutturati tutti, stordito dal revisionismo negazionista, come un “ponte” fra la bellezza di ieri, che è sopravvisuta come un fiore testardo che anno dopo anno schiude la tenera corolla fra i sassi, e quella di domani. Allora la speranza non è più una parola disidratata dall’uso, disossata, ma qualcosa di vivo che pulsa e che come la gemma carezzata dal sole preme dal ramo a primavera, pregna di nuovi postulati morali, estetici, esistenziali. La speranza riecheggia poi nella passione umana e civile dell’introduzione di Ignazio De Francisci (Procuratore Capo della Repubblica di Agrigento): “Questo libro a volte crudo e impietoso nelle immagini, dovrebbe essere inviato a tutti i nostri uomini di governo con la speranza che lo sfoglino. Troppe cose fanno sospettare che i nostri governanti abbiano dimenticato troppo in fretta… Siamo un Paese senza memoria, e questo è grave, perché un Paese senza memoria taglia le proprie radici…”.
Paradossalmente, il libro dice più in quel ch’è sottinteso, sottotraccia, le interfacce e i chiaroscuri, che nella ferocia dei click che immortalano corpi dilaniati, cupe scie di sangue in location mediterranee, l’asfodelo e il lentisco, ulivo e carrubo, bare dozzinali inchiodate alla svelta, case sventrate che svelano cucine economiche, utilitarie squarciate e uomini d’onore dietro le sbarre, boss e carabinieri, uomini di legge e uomini senza legge, cravatte tese e colletti bianchi: una gallery dell’orrore a cui ci si è assuefatti, una Spoon River dove la morte ha sorpreso gente per bene e per male. Il cui messaggio subliminale è “Vi prego, scandalizzatevi!”.