di Francesco Greco. Che cos’accade non appena chiudiamo gli occhi? E cosa succede nella nuova dimensione che ci aspetta alla fine della vita? Cosa e chi è probabile che troveremo nella nuova dimensione? Sotto quale forma, posto che accadrà, continueremo a esistere? Sono le domande di tutti, da sempre. Nonostante le illusioni sparse dalla cultura dominante sulle aspettative di vita che cresce in durata e il giovanilismo spinto creato ad arte dal marketing per spacciare la moneta falsa dell’eterna gioventù (e relativi brand), evangelicamente è bene vegliare, perchè continuiamo a non sapere il giorno e l’ora.
La psichiatra svizzera Elizabeth Kubler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926-Scottsdale, Arizona, 24 agosto 2004), che è stata medico e docente di medicina comportamentale, ha passato la vita accanto al letto dei moribondi, giovani e vecchi, dopo incidenti, omicidi, suicidi, o per brutte patologie, analizzando la morte e il morire (“Non è mai troppo tardi per dire, o …”) e il modo meno lacerante di affrontare la sofferenza fisica e psichica strappando la morte dalla realtà biologica, antropologica, filosofica, storica in cui era stata cristallizzata per millenni.
S’è giocata una reputazione di scienziata seria, ma ha raccolto ed elaborato una serie di dati e considerazioni “sul campo” che riscrivono ciò che in materia sedimentava nella cultura ufficiale, le ha illustrate nelle conferenze in giro per il mondo e ai propri studenti. E adesso sono state raccolte in “La morte e la vita dopo la morte” (“morire è come nascere”), Edizioni Mediterranee, Roma, pp. 96, € 9.90 (con la bella traduzione di Maria Fogliani Sanguinetti). Dunque, una scienziata senza paura, armata solo di un’audace curiosità, ha riscritto la ricerca tanatologica, spostato l’orizzonte della conoscenza su una materia ispida, su cui tutti, a ogni livello, da tempi remoti riflettono, spesso ponendosi in maniera dogmatica e fondamentalista, affatto dialettica.
Concludendo che la morte non è la fine ma l’inizio di una nuova, e forse più eccitante avventura, usando la simbologia della farfalla che si libera del bozzolo, o della dimora ancora più bella che ci aspetta dopo una vita in cui uno spirito-guida ci è stato accanto condividendo tutto con noi e talvolta portandoci verso la strada meno faticosa. “Per lei – osserva Kenneth, uno dei figli della scienziata – la morte non era da temere: era come prendere una laurea, superare il passaggio a uno stato più alto di consapevolezza”.
Fa eco Paola Giovetti in prefazione: “Ha infranto un tabù e con un lavoro instancabile e paziente ha fatto partecipi tutti coloro che hanno voluto ascoltarla non di ciò che crede sulla morte, ma di ciò che su di essa sa”. Quali sono le scoperte più sconvolgenti? Fatto curioso: le esperienze di persone tornate dal coma dopo essere state dichiarate clinicamente morte, che cioè avevano varcato la soglia (sono stati studiati 20mila casi), sono comuni a tutti, al di là di stato sociale e fede religiosa. Non avrebbero voluto tornare “indietro”, non hanno più paura della morte, ognuno è atteso dalla persona da cui più è stato amato, morire è un’emozione unica, la più bella in assoluto, nell’aldilà ognuno è in grado di giudicarsi da solo. Aggiunge Giovetti: “La Kubler-Ross è giunta all’affermazione che la morte in sé non esiste”. E lo conferma lei stessa: “L’esperienza della morte è quasi identica a quella della nascita. E’ come nascere a un’esistenza diversa… E’ un privilegio trovarsi al capezzale di un morente e la morte in quanto tale non deve essere una cosa triste e orribile… Dobbiamo capire che esistono solo due paure naturali, quella di cadere e quella dei rumori forti e che tutte le altre ci sono state indotte dagli adulti che proiettavano su di noi le loro ansie, trasmettendole da una generazione all’altra”.
Una vita passata a tenere la mano ai moribondi, per accorgersi che essi annusano la fine imminente, ma la morte arriva, per chi assiste, di soppiatto: “All’improvviso dicono addio… è solo un tratto brevissimo della nostra esistenza globale”. La scienziata si sofferma sui tre stadi che si attraversano appena si abbandona il bozzolo (il corpo umano): è la prima fase, in cui si ha ancora energia fisica, un cervello funzionante e una coscienza vigile. Secondo stadio: si dispone di energia psichica e non si ha più coscienza per interagire con i propri simili. “Si deve umilmente accettare il fatto – ricorda la scienziata – che ci sono milioni di cose che non siamo in grado di capire… Ciò non significa che quello che non siamo in grado di capire non esista o non è reale”.
In questo stadio si recupera l’integrità del corpo: il cieco vede, lo zoppo cammina. Si incontrano i propri cari. E si attraversa il tunnel, il monte, o il passo di montagna avvolti da una luce “più candida del bianco”, circondati dall’amore più grande: “Non cio sono parole adatte a descriverlo”. Al terzo stadio, ormai acconciati nella forma che assumeremo per l’eternità, riconsidereremo la nostra vita dall’inizio alla fine “con una sensazione di benessere e completezza”.
Un libro prezioso, che ridefinisce la tanatologia al tempo del chip e dell’intelligenza artificiale, demitizza, senza spargere paura ma con stile colloquiale e dolce la fase conclusiva della vita sottrandola alla miriade di luoghi comuni che ci ritroviamo nella cultura corrente. Per non avere paura perchè in quel momento “non siamo soli”. Per assaporare la vita (“Siamo stati creati per una vita bella, semplice, meravigliosa”) senza temere, ma affrontando serenamente l’ultimo passaggio, quando la farfalla uscirà dal bozzolo per volare lieve e allegra verso una dimora più bella di quella che ci è toccata provvisoriamente.
La psichiatra svizzera Elizabeth Kubler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926-Scottsdale, Arizona, 24 agosto 2004), che è stata medico e docente di medicina comportamentale, ha passato la vita accanto al letto dei moribondi, giovani e vecchi, dopo incidenti, omicidi, suicidi, o per brutte patologie, analizzando la morte e il morire (“Non è mai troppo tardi per dire
S’è giocata una reputazione di scienziata seria, ma ha raccolto ed elaborato una serie di dati e considerazioni “sul campo” che riscrivono ciò che in materia sedimentava nella cultura ufficiale, le ha illustrate nelle conferenze in giro per il mondo e ai propri studenti. E adesso sono state raccolte in “La morte e la vita dopo la morte” (“morire è come nascere”), Edizioni Mediterranee, Roma, pp. 96, € 9.90 (con la bella traduzione di Maria Fogliani Sanguinetti). Dunque, una scienziata senza paura, armata solo di un’audace curiosità, ha riscritto la ricerca tanatologica, spostato l’orizzonte della conoscenza su una materia ispida, su cui tutti, a ogni livello, da tempi remoti riflettono, spesso ponendosi in maniera dogmatica e fondamentalista, affatto dialettica.
Concludendo che la morte non è la fine ma l’inizio di una nuova, e forse più eccitante avventura, usando la simbologia della farfalla che si libera del bozzolo, o della dimora ancora più bella che ci aspetta dopo una vita in cui uno spirito-guida ci è stato accanto condividendo tutto con noi e talvolta portandoci verso la strada meno faticosa. “Per lei – osserva Kenneth, uno dei figli della scienziata – la morte non era da temere: era come prendere una laurea, superare il passaggio a uno stato più alto di consapevolezza”.
Fa eco Paola Giovetti in prefazione: “Ha infranto un tabù e con un lavoro instancabile e paziente ha fatto partecipi tutti coloro che hanno voluto ascoltarla non di ciò che crede sulla morte, ma di ciò che su di essa sa”. Quali sono le scoperte più sconvolgenti? Fatto curioso: le esperienze di persone tornate dal coma dopo essere state dichiarate clinicamente morte, che cioè avevano varcato la soglia (sono stati studiati 20mila casi), sono comuni a tutti, al di là di stato sociale e fede religiosa. Non avrebbero voluto tornare “indietro”, non hanno più paura della morte, ognuno è atteso dalla persona da cui più è stato amato, morire è un’emozione unica, la più bella in assoluto, nell’aldilà ognuno è in grado di giudicarsi da solo. Aggiunge Giovetti: “La Kubler-Ross è giunta all’affermazione che la morte in sé non esiste”. E lo conferma lei stessa: “L’esperienza della morte è quasi identica a quella della nascita. E’ come nascere a un’esistenza diversa… E’ un privilegio trovarsi al capezzale di un morente e la morte in quanto tale non deve essere una cosa triste e orribile… Dobbiamo capire che esistono solo due paure naturali, quella di cadere e quella dei rumori forti e che tutte le altre ci sono state indotte dagli adulti che proiettavano su di noi le loro ansie, trasmettendole da una generazione all’altra”.
Una vita passata a tenere la mano ai moribondi, per accorgersi che essi annusano la fine imminente, ma la morte arriva, per chi assiste, di soppiatto: “All’improvviso dicono addio… è solo un tratto brevissimo della nostra esistenza globale”. La scienziata si sofferma sui tre stadi che si attraversano appena si abbandona il bozzolo (il corpo umano): è la prima fase, in cui si ha ancora energia fisica, un cervello funzionante e una coscienza vigile. Secondo stadio: si dispone di energia psichica e non si ha più coscienza per interagire con i propri simili. “Si deve umilmente accettare il fatto – ricorda la scienziata – che ci sono milioni di cose che non siamo in grado di capire… Ciò non significa che quello che non siamo in grado di capire non esista o non è reale”.
In questo stadio si recupera l’integrità del corpo: il cieco vede, lo zoppo cammina. Si incontrano i propri cari. E si attraversa il tunnel, il monte, o il passo di montagna avvolti da una luce “più candida del bianco”, circondati dall’amore più grande: “Non cio sono parole adatte a descriverlo”. Al terzo stadio, ormai acconciati nella forma che assumeremo per l’eternità, riconsidereremo la nostra vita dall’inizio alla fine “con una sensazione di benessere e completezza”.
Un libro prezioso, che ridefinisce la tanatologia al tempo del chip e dell’intelligenza artificiale, demitizza, senza spargere paura ma con stile colloquiale e dolce la fase conclusiva della vita sottrandola alla miriade di luoghi comuni che ci ritroviamo nella cultura corrente. Per non avere paura perchè in quel momento “non siamo soli”. Per assaporare la vita (“Siamo stati creati per una vita bella, semplice, meravigliosa”) senza temere, ma affrontando serenamente l’ultimo passaggio, quando la farfalla uscirà dal bozzolo per volare lieve e allegra verso una dimora più bella di quella che ci è toccata provvisoriamente.