Libri: Boeri-Garibaldi, 10 proposte per tornare a crescere

di Francesco Greco. Dal riformismo senza riforme dell’éra demo-craxiana al riformismo demenziale come una gag dei fratelli Marx, “ad personam”, fatto di “annunci” a reti unificate della cupa parabola berlusconiana. Sino all’ammuina dei “tecnici” in un Parlamento di “nominati” sempre più distante dal popolo, sotto schiaffo dell’Ue, il duo Merkel-Sarkozy, il dio-mercato, in fuga da un default da ultimi giorni a Pompei. E’ sempre di là da venire un riformismo serio e condiviso per tornare a crescere e agganciare il sistema-Paese alla modernità in un Occidente dal cuore di tenebra ormai privo del pathos dell’utopia, seppure sotto “la violenza della crisi globale”. E non non potrà venir certo – si lascia intendere in questo saggio incalzante - da una classe politica di Scilipoti e Santanchè, indecisa a tutto, trasfiguratasi in casta corrotta, arroccata nel Palazzo d’Inverno a difesa di scandalosi privilegi mentre chiede sacrifici alla gente, Fantozzi in attesa di maturare il vitalizio, a raccontare rozze favole propagandistiche (“il peggio è passato”, “siamo fuori dal tunnel”), col “patto sociale” atomizzato, dove il piccolo imprenditore chiede, a banche inzeppate di liquidità vs Bce, un prestito di 1300 €, glielo negano, torna a casa e si uccide. Serve una nuova governance. Eppure, in un’Europa disfatta dalla nostalgia per le “nazioni” e un Belpaese di macroregioni virtuali, ostaggio di mille lobby e corporazioni l’un contro l’altra armate, ove ci fosse un minimo di volontà politica e di ansia per il bene comune di una patria mai così relativizzata e priva di autostima, i contributi seri alla riflessione ci sono. Solo che, in un contesto culturale in cui prevale il feticismo dell’apparire (la sindrome del Grande Fratello) e delle opinioni urlate, il pensiero razionale è spinto ai margini. In “Le riforme a costo zero” (10 proposte per tornare a crescere), di Toto Boeri e Pietro Garibaldi, Chiarelettere, Milano 2011, pp. 162, € 13, si dimostra che tornare a crescere è possibile, si sbugiarda la leggenda metropolitana “non ci sono soldi”, si prova che la strozzatura non sta nel debito pubblico ma è “culturale” e che se le resistenze stanno nella casta, è possibile anche con l’inclusione delle intelligenze migliori masochisticamente scacciate dopo averle formate (“Saranno loro a subire le conseguenze e a portare per lungo tempo, alcuni per sempre, le cicatrici di un esordio molto difficile della propria carriera lavorativa”… comune denominatore delle riforme proposte è di guardare ai giovani”) è strada praticabile, che la ricchezza sociale si può ripartire con un’equità conveniente al sistema-Italia il cui declino è oggettivamente provato dagli inglesi che decidono blitz per conto loro, e la neo-potenza India sul caso dei marò assassini. E dunque, Boeri-Garibaldi, con l’autorevolezza d’un pedigrèe maturato sul campo (il primo insegna economia alla Bocconi, il secondo economia politica all’Università di Torino), riflettono sulla necessità di una “campagna” di riforme strutturali ormai non più rinviabili, possibili solo se tutti rinunciano a qualcosa in direzione di una vera equità, in grado di incidere nella carne viva della cultura bizantina del laissez-faire, il fatalismo cattolico, il mercato regola tutto, il doroteo “molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare” che imbevono un dibattito politico-economico ormai confinante nella metafisica, quando non intellettualmente ozioso, oltre che nell’autoreferenzialità. Siamo un Paese a crescita zero, anche prima del 2009, annus horribilis (zero virgola), quello messo peggio fra la nazioni Ocse (“il reddito medio degli italiani è quello di dodici anni fa”), dove, fra l’altro “le donne lavorano più degli uomini”. Quali sono le riforme cui, se fossimo davvero dei buoni “patrioti”, metteremmo mano sic stantibus? Boeri-Garibaldi indicano le principali: l’immigrazione, che sino a oggi è andata avanti con ritmi dettati dall’anarchia, tra xenofobia e populismo; la “transizione tra scuola e lavoro”, quella palude infida in cui tanti giovani affondano (si propone l’apprendistato universitario); il salario minimo per “migliorare l’utilizzo del capitale umano”; la macchina dello Stato con “incentivi ai dipendenti pubblici” spesso demotivati e accidiosi; “professionisti più liberi e ordini più trasparenti”; il lavoro nella stessa famiglia, con riferimento evidente alle donne, altro patrimonio umano sottoutilizzato; pensioni, contributivo per tutti (in pole position i politici); accesso al credito per chi vuole crescere (altra strozzatura come dimostra la cronaca di questi mesi); “meno politici a livello nazionale e locale”; una , un “partito delle riforme” intergenerazionale, col voto a 16 anni e pensionati attivi e solidali. Le soluzioni quindi ci sarebbero, ma noi che abbiamo inventato il barocco sublimato nel rococò, pur avendole a portata di mano, abbiamo il vizio di cercare sempre nell’iperurano, aprendo e chiudendo tavoli, per perderci in viscidi labirinti di parole. Un atteggiamento estetico, quasi da dandy, di cui paghiamo, e pagheremo ancor di più in futuro, prezzi salati sommati in termini esponenziali. Urlava Moretti: “No, il dibbattito no…”.

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