Cultura: migranti e nativi uniti nella lotta
di Francesco Greco. Abito in un paese del Sud dove cresce il mirto e l’asparago, il ragno malefico (taranta) pizzica. Siamo in 1500, totale badanti: 30. L’ha detto il prete sull’altare. Dall’Est europeo, alcune laureate, altre belle come modelle. Il riccastro del paese ha una tenuta, tre operai del Bangladesh la accudiscono. Li tiene nella pajara (trullo a tolos). L’estate stendono una coperta sull’astico, dormono sotto le stelle. Tempo fa la moglie dell’arricchito li ha beccati a bere acqua minerale: uno scandalo! Se badanti e tamil (in Italia 4 milioni e ½ di migranti “rubano il posto ai nativi”) tornassero a casa, le vecchie morirebbero, i giardini invasi dalle erbacce. D’estate i neri raccolgono le angurie a 2-3 € l’ora, dall’alba al tramonto senza un cappello sotto il sole feroce. La cosa ai politici non interessa: i migranti non votano. L’anno scorso abbiamo fatto un convegno: sono venuti i neri, educati, timidi, sanno le lingue, uno era attore. Ci siamo scambiati le e-mail, ci chiamiamo “fratelli”. Abbiamo detto a tutti che sono migliori di noi, e che comunque noialtri, figli di emigranti, ci vediamo per transfert i nostri padri con la valigia di cartone. Da quella sera li invitano a pranzo, offrono caffè e sigarette, ricariche per farli parlare con le famiglie. Basta niente, l’umanità affiora, la solidarietà tra migranti e nativi è topos culturale.
Da anni c’è una guerra sottintesa, crudele, planetaria (la globalizzazione l’ha riscritta in chiave darwiniana), “implacabile contro l’immigrazione irregolare che comincia a ricordare alcuni dei periodi più bui della storia europea”, con un nemico invisibile e indifeso. I governi negano il fenomeno appaltandolo alla criminalità, militarizzando il territorio (come Bush nel 2007, migliaia di nuovi agenti e milioni di $ in videosorveglianza). Per non ammettere che è “fenomeno fisiologico di mobilità legata alla domanda di lavoro nelle economie avanzate”. Non lo nega invece l’editoria coraggiosa, che con le sue firme militanti scannerizza una tematica sommersa dandogli un retroterra economico, etico, antropologico in un saggio analitico pregno di etos e passione civile di Vittorio Longhi, “La rivolta dei migranti” (un movimento globale contro la discriminazione e lo sfruttamento), Due Punti Edizioni, Palermo 2012, pp. 192, € 15 (Collana “Cronografie”).
Emergono le interfacce che i media intenti a correre dietro lo scandalismo, che lo esorcizza lasciando lo status quo, o derubricano a sordida sociologia. Lo stile di Longhi è quello del cronista un po’ entomologo, attento alle sfumature, convinto, come deve essere un’analisi efficace, che servono a comporre un puzzle dall’intensa drammaticità, contestualizzato nell’”eterno conflitto capitale-lavoro”, ma anche, citando Noam Chomsky, linguista di rango, “un attacco internazionale al lavoro” che ha dato vita a un “proletariato precario” e sospinge ai margini i migranti come i nativi dei paesi industrializzati che vivono nella “frustrazione e nell’incertezza”, la “precarietà istituzionalizzata” . L’input da un pezzo di Matthew Carr (benedetto giornalismo anglosassone che si occupa di fatti, non di onanismo) sul “New York Times” del 2010 (“La guerra agli immigrati”).
“Ho visto la polizia francese (si spera non quella di Holland, n.d.r.) confiscare le coperte a migranti senza tetto a Calais, in quella che un ufficiale mi ha descritto come”. Da qui la ricognizione della question in tutti i Continenti: cambiano le facce, gli archetipi sono uguali. Se, per dire, l’ultima dimora del ragazzo afgano che si affaccia all’Occidente è il mare di Omero, Ulisse, Enea, una bara di legno nudo inchiodato in fretta e furia è quella della ragazza nepalese che aveva cercato una vita degna nelle ricche famiglie arabe. Identiche le menzogne del potere: omicidi spacciati per suicidi. “Ogni giorno all’aeroporto internazionale arrivano im media due bare”.
Riportano i corpi dei migranti che sono andati a lavorare da muratori, operai o autisti, ma soprattutto domestici nei Paesi ricchi del Medio Oriente, il Golfo Persico, l’Asia Orientale”. Wimla Vik aveva 31 anni, era nepalese ed è tornata così ad aprile 2011: sul referto medico c’era scritto che si era suicidata 5 mesi prima. Il 25 agosto 2010 la polizia messicana ha trovato 72 migranti (58 uomini, 14 donne) assassinati nel vecchio ranch di San Fernando: erano honduregni, brasiliani, salvadoregni, ecuadoregni che cercavano di attraversare il confine con gli Usa. S’erano imbattuti nella banda Zetas che controlla il traffico di droga e specula sull’immigrazione. Di solito li rapiscono e chiedono 3000 $ di riscatto alle famiglie. Purtroppo per loro non hanno voluto né pagare né arruolarsi per spacciare. Si è salvato solo un ragazzo ecuadoregno. Gli scafisti che secondo la magistratura siciliana “agiscono per motivi abietti e con crudeltà”, stando all’Osservatorio on line Fortresse Europe, dal 1998 al 2011 hanno assassinato circa 18mila persone, da Gibilterra all’Egeo, circa 6.000 e 4500 “dispersi” nel Canale di Sicilia.
Ma le cose cambiano: c’è più conoscenza e coscienza.
“Seppure in modo spontaneo – riflette Longhi – sembra configurarsi un movimento globale contro la discrimimazione e lo sfruttamento”. Un libro strettamente necessario, che conquista per la modulazione dolente, la pietas laica, una partecipazione all’umana avventura che richiama Hemingway: “Ogni morte di uomo mi diminuisce…”.
Da anni c’è una guerra sottintesa, crudele, planetaria (la globalizzazione l’ha riscritta in chiave darwiniana), “implacabile contro l’immigrazione irregolare che comincia a ricordare alcuni dei periodi più bui della storia europea”, con un nemico invisibile e indifeso. I governi negano il fenomeno appaltandolo alla criminalità, militarizzando il territorio (come Bush nel 2007, migliaia di nuovi agenti e milioni di $ in videosorveglianza). Per non ammettere che è “fenomeno fisiologico di mobilità legata alla domanda di lavoro nelle economie avanzate”. Non lo nega invece l’editoria coraggiosa, che con le sue firme militanti scannerizza una tematica sommersa dandogli un retroterra economico, etico, antropologico in un saggio analitico pregno di etos e passione civile di Vittorio Longhi, “La rivolta dei migranti” (un movimento globale contro la discriminazione e lo sfruttamento), Due Punti Edizioni, Palermo 2012, pp. 192, € 15 (Collana “Cronografie”).
Emergono le interfacce che i media intenti a correre dietro lo scandalismo, che lo esorcizza lasciando lo status quo, o derubricano a sordida sociologia. Lo stile di Longhi è quello del cronista un po’ entomologo, attento alle sfumature, convinto, come deve essere un’analisi efficace, che servono a comporre un puzzle dall’intensa drammaticità, contestualizzato nell’”eterno conflitto capitale-lavoro”, ma anche, citando Noam Chomsky, linguista di rango, “un attacco internazionale al lavoro” che ha dato vita a un “proletariato precario” e sospinge ai margini i migranti come i nativi dei paesi industrializzati che vivono nella “frustrazione e nell’incertezza”, la “precarietà istituzionalizzata” . L’input da un pezzo di Matthew Carr (benedetto giornalismo anglosassone che si occupa di fatti, non di onanismo) sul “New York Times” del 2010 (“La guerra agli immigrati”).
“Ho visto la polizia francese (si spera non quella di Holland, n.d.r.) confiscare le coperte a migranti senza tetto a Calais, in quella che un ufficiale mi ha descritto come