di Francesco Greco. Anni ’30 del “secolo breve”: il nazismo è alle porte con la sua perversa “banalità del male” annunciata. La galassia ebraica avverte inconsciamente la minaccia, annusa l’orrore in divenire e pone la questione della lingua, quella dei genitori, quella dei figli che la dovranno ereditare. La sua secolarizzazione, la desertificazione semantica è vista, vissuta e intepretata quasi come un segno di blasfemia, gravida di oscuri presagi. Gershom Scholem pone la complessa querelle in una lettera a Franz Rosenzweig datata Gerusalemme 26 dicembre 1926. Ritrovata solo nel 1985 fra le carte.
Il filosofo francese Jacques Derrida (El Biar, 1930 – Parigi 2004) l’ha trovata di sorprendente attualità, e l’ha commentata nel saggio “Gli occhi della memoria”, Mimesis, Milano – Udine 2011, pp. 96, € 12 (a cura di Luigi Azzariti-Fumaroli, Milano 1981), nella bellissima collana “Volti” (che propone il meglio del pensiero occidentale dell’ultimo secolo: da Nietsche a Wittgenstein, da Delueze a Marcuse, e poi Simmel, Husserl, ecc.) diretta da Giuseppe Bianco, Damiano Cantone, Pier Dalla Vigna e Luca Taddio.
“Questo paese è un vulcano –premette Scholem mettendo il tem al centro del dibattito – Si parla di molte cose che potrebbero farci andare in malora, oggi più che ai si parla degli Arabi”. Egli stesso non crede alla secolarizzazione dell’ebraico: “Non è vero affatto: è soltanto una frase fatta. E’ semplicemente impossibile svuotare le parole piene zeppe di significato, a meno di sacrificare la lingua stessa. Ma se tramandiamo ai nostri figli la lingua che ci è stata tramandata, se noi, generazione di passaggio, vivifichiamo per loro la lingua degli antichi libri, allora un giorno non potrà la bellezza di questa lingua prorompere?” . Poi, profetico, quasi ad annusare la Notte dei Cristalli, l’Anschluss, le leggi razziali e infine i vagoni piombati e le camere a gas (orrori negati mezzo secolo dopo dal pensiero delirante dei maestri del nichilismo): “Viviamo in questa lingua quasi tutti con la sicurezza del cieco sospeso su un abisso, ma quando torneremo a vedere noi, o chi verrà dopo di noi, non vi precipiteremo? (…) Voglia quindi il cielo che la noncuranza che ci ha condotti su questa strada apocalittica non ci porti alla rovina”.
Rosenzweig però successivamente, ricordando l’incontro con Scholem, metterà l’accento sulla sua rigidità intellettuale da conservatore illuminato: “Per lui il suo ebraismo è solo un convento. Egli (…) non si cura degli uomini… Ne segue che egli è diventato un senzalingua”. E aggiunge: “Egli è davvero senza dogmi”. Interfaccia che il curatore decodifica in un “anarchismo teocratico”.
L’inquietudine fondamentalista dell’interprete della Qabbalah – aggiunge in prefazione Azzariti-Fumaroli - già nel 1916 aveva sostenuto che la Nazione ebraica non dovesse considerarsi “una cosa che bene o male esiste e nel cui ambito, secondo le circostanze, l’umano si realizza nel modo migliore, bensì come una determinazione dell’essenza della forma interna dell’ebraismo che è significativamente più profondo e più necessario di quello comunemente sionista”.
Sebbene a decenni di distanza, la chiosa di Derrida contiene un’attualità sorprendente, che forse valica il tempo. E che comunque è nel codice dialettico quanto escatologico di ogni interfaccia della cultura yiddish. E anche qui è la sua universalità, il fuoco greco, la forza, il vulcano. Derrida usa la password illuminista per confutare Scholem, e lo fa anche citando Kant: “”…la loro diaspora in tutto il mondo, nonostante la loro unità religiosa e linguistica, non deve essere una maledizione inviata su questo popolo, ma piuttosto una benedizione”. E tornando sul tema della lingua calibra: “…quest’essenza parlante della lingua sacra, è passare attraverso la scrittura sacra che tiene in serbo la parola di Dio, la voce di Dio, e questo ritorno non è niente di meno che una rivoluzione (…) che al pari di ogni rivoluzione politica, contraddistigue il momento del giudizio, l’istanza di un tribunale…”. Diaspora, maledizione, parola di Dio, momento del giudizio: topoi dialettici che da Scholem a Rosewzweig e Derrida restano integri nelle loro potenza allegorica metalinguistica, come se non se ne discutesse da millenni, e non lo si farà anche nei prossimi venturi.