di Vittorio Polito. Alcuni quotidiani locali hanno pubblicato in questi giorni note su un progetto dell’Associazione culturale “La DifférAnce” di Bari, finalizzato a realizzare una rappresentazione cinematografica di “Giulietta e Romeo” di Shakespeare, in dialetto barese.
A parte lo sfruttamento che c’è stato dell’opera, il fatto che incuriosisce e che meraviglia non poco è che qualcuno parla della tragedia shakespeariana tradotta in «puro dialetto barese» o in «puro idioma barese», dall’Accademia della lingua barese ‘Alfredo Giovine’.
Ma esiste il “puro dialetto barese”? e chi ne è il detentore? Dando uno sguardo ad alcune pubblicazioni in dialetto barese di vari autori che si sono succeduti nel tempo, si nota che il nostro dialetto è stato scritto, da sempre, seguendo criteri diversi, dal momento che non ci sono mai state regole riconosciute e condivise, per cui ognuno ha scritto e scrive il “suo” dialetto come gli pare e piace; con accenti gravi o acuti, con doppie consonanti iniziali, mettendo apostrofi, togliendo e aggiungendo vocali, sprecando consonanti, utilizzando la j e la k secondo propri criteri, unendo più parole, oppure scrivendo il dialetto come si pronuncia. Insomma una gran confusione che rende sempre più difficile sia la lettura che l’interpretazione.
Senza entrare nel merito di come si scrive “correttamente” il dialetto barese, si può affermare che il puro dialetto barese non esiste, al massimo si può parlare di dialetto originale. Oggi non c’è proprio nessuno in grado di documentare quale sia il «puro dialetto barese».
Si può far riferimento a quello che ha la paternità del canonico Francesco Saverio Abbrescia (1813-1852), come sostiene Pasquale Sorrenti (1927-2003), poeta, scrittore e giornalista, in una sua nota introduttiva alla quarta ristampa del volume di Antonio Dentamaro “Le rime baresi di F.S. Abbrescia” (Levante Editori 1994). Sorrenti scrive: «Nume tutelare del nostro dialetto, Francesco Saverio Abbrescia è certamente uno dei grandi poeti dialettali in senso lato, da non sfigurare davanti a chicchessia. Forse a lui, creatore del nostro idioma, mancò l’accortezza di farsi avanti, e forse non volle sentirsi il primo. Un poeta, invece, - scrive ancora Sorrenti – che aveva scritto poesie dialettali da letterato era il nobile Giorgio Sagarriga Visconti (1727-1803), ma non ci sono tracce delle sue poesie».
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nessuno può arrogarsi il diritto di sostenere come si scrive correttamente il dialetto barese, senza riferirsi a Francesco Saverio Abbrescia ed alla grammatica italiana. Tutti coloro che vengono dopo e che vogliono modificare, approfondire, correggere, sono solo persone che vogliono appropriarsi di un diritto che non gli compete, creando solo confusione ed inutili anarchie letterarie.
A parte lo sfruttamento che c’è stato dell’opera, il fatto che incuriosisce e che meraviglia non poco è che qualcuno parla della tragedia shakespeariana tradotta in «puro dialetto barese» o in «puro idioma barese», dall’Accademia della lingua barese ‘Alfredo Giovine’.
Ma esiste il “puro dialetto barese”? e chi ne è il detentore? Dando uno sguardo ad alcune pubblicazioni in dialetto barese di vari autori che si sono succeduti nel tempo, si nota che il nostro dialetto è stato scritto, da sempre, seguendo criteri diversi, dal momento che non ci sono mai state regole riconosciute e condivise, per cui ognuno ha scritto e scrive il “suo” dialetto come gli pare e piace; con accenti gravi o acuti, con doppie consonanti iniziali, mettendo apostrofi, togliendo e aggiungendo vocali, sprecando consonanti, utilizzando la j e la k secondo propri criteri, unendo più parole, oppure scrivendo il dialetto come si pronuncia. Insomma una gran confusione che rende sempre più difficile sia la lettura che l’interpretazione.
Senza entrare nel merito di come si scrive “correttamente” il dialetto barese, si può affermare che il puro dialetto barese non esiste, al massimo si può parlare di dialetto originale. Oggi non c’è proprio nessuno in grado di documentare quale sia il «puro dialetto barese».
Si può far riferimento a quello che ha la paternità del canonico Francesco Saverio Abbrescia (1813-1852), come sostiene Pasquale Sorrenti (1927-2003), poeta, scrittore e giornalista, in una sua nota introduttiva alla quarta ristampa del volume di Antonio Dentamaro “Le rime baresi di F.S. Abbrescia” (Levante Editori 1994). Sorrenti scrive: «Nume tutelare del nostro dialetto, Francesco Saverio Abbrescia è certamente uno dei grandi poeti dialettali in senso lato, da non sfigurare davanti a chicchessia. Forse a lui, creatore del nostro idioma, mancò l’accortezza di farsi avanti, e forse non volle sentirsi il primo. Un poeta, invece, - scrive ancora Sorrenti – che aveva scritto poesie dialettali da letterato era il nobile Giorgio Sagarriga Visconti (1727-1803), ma non ci sono tracce delle sue poesie».
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nessuno può arrogarsi il diritto di sostenere come si scrive correttamente il dialetto barese, senza riferirsi a Francesco Saverio Abbrescia ed alla grammatica italiana. Tutti coloro che vengono dopo e che vogliono modificare, approfondire, correggere, sono solo persone che vogliono appropriarsi di un diritto che non gli compete, creando solo confusione ed inutili anarchie letterarie.
Che tantissimi termini dialettali baresi possiedano più varianti (data l’evoluzione linguistica), è una cosa risaputa; lo sanno anche le pietre. Nonostante ciò, è comunque giusto che si cerchi di dare dignità al nostro magnifico dialetto, fissando delle regole comuni di scrittura. Onore a chi si impegna a farlo, dunque!... Determinate regole vanno fissate, in quanto indiscutibilmente fanno parte della natura della nostra lingua. E’ importante, ad esempio, non confondere tra loro i suoni /ji/ e /ij/ (errore molte volte commesso dagli scrittori). E’ importante non adoperare la “j” a casaccio (e pertanto, siccome occorrerebbe studiare approfonditamente l’argomento in questione, per semplificare le cose, sarebbe meglio non utilizzarla affatto). E’ importante saper individuare le “i” e le “u” prostetiche. E’ importante distinguere le “e” semimute da quelle non semimute. E’ importante trasformare (nei casi previsti) “ns” in “nz”, “mp”/”nb”/”np” in “mb”, “nf” in “nv”/”mb”, “nt” in “nd”, “lt” in “ld”, “nq”/”nc” in “ng”, ecc.. E’ fondamentale l’uso di “sck”. E’ importante distinguere “sc” da “ssc”. Con l’elenco mi fermo qui per non tediare i lettori, ma è ovvio che di regole da menzionare ce ne sarebbero ancòra. E’ necessario però che le regole vadano applicate con coerenza e logicità. Ed infine, credo che chi appoggia l’anarchia in scrittura, non voglia bene al nostro grandioso idioma.
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