di Francesco Greco. E’ gravemente malato lo scrittore Predrag Matvejevic. Lo comunica la moglie Mirjana. Il Maestro ha sospeso momentaneamente ogni attività letteraria per curare l’epatite c. Da tutto il mondo gli giungono quotidianamente messaggi affettuosi per una pronta guarigione. L’autore di molti libri diventati ormai dei classici, fra cui “Breviario Mediterraneo” (Garzanti, 11 edizioni, tradotto in 23 lingue) e “Pane nostro” (Garzanti), è da sempre in stand-bye per il Nobel per la Letteratura. E’ nato a Mostar (Bosnia-Erzegovina), da madre croata e padre russo.
Un anno fa a Cursi, nel Leccese, presentò “Pane nostro”. Fu una serata commovente. Lo scrittore tenne avvinto il suo pubblico nel cortile dell’Alogne, un locale dove si respira l’aria del tempo andato. Si rivelò parco di parole, frugale nei gesti, ma profondo nei concetti espressi. Si disse preoccupato per il futuro dell’umanità e di quelli che soffrono, i diseredati che in futuro avrebbero avuto meno pane. Alla fine gli facemmo qualche domanda, per approfondire i concetti del libro. Ci diede subito il biglietto da visita senza la spocchia di scrittorucoli montati da tv e uffici-stampa, che non sono degni di slacciargli le scarpe. Un segno ulteriore della sua grandezza. Riproponiamo quell’intervista, augurandogli anche noi lunghissima vita: ci confidò che gli sarebbe piaciuto presentare “Pane nostro” a Santa Maria di Leuca. Un piccolo “sogno” per cui ci siamo spesi in questi mesi.
“La mia infanzia è attraversata da un sogno: il pane”. Lo sguardo del grande scrittore si riempie di ricordi: quando la guerra incendiò l’Europa dei nazionalismi feroci spingendola in un baratro limaccioso e il poco pane che si riusciva a trovare era nero, o verde di muffa. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano…”, si pregava pe sfamare i bambini. Il padre, d’origine russa, era rinchiuso in un campo di lavoro nazista, il nonno e il prozio sepolti in un gulag staliniano dove la notte la temperatura scendeva a -40 e i prigionieri facevano a pezzi la pagnotta per non farsela rubare (Varlam Salamov in “Kolyma”): non torneranno più. Scene che fanno pensare a “Se questo è un uomo”, di Primo Levi (citato nel libro).
Lo scrittore Predrag Matvejevic è a Cursi, nel cuore di pietra dolce del Salento, terra di fame e sete, sotto il pergolato d’uva Gerusalemme del “Giardino di Alogne” (parola catalana: vuol dire, ), un luogo assolutamente delizioso, informale, famigliare, appena restaurato da Daniele Lanzilotto, architetto, creatore di ambienti, e rimasto intatto con le stanze di calce bianca dove si respira il tempo andato e tutto è genuino e vero come appena ieri, i sentimenti su tutto. L’idea fu del padre 81enne e i fratelli Lanzilotto (oltre a Daniele, Giovanni, che ci accoglie con affetto: è tipico dei salentini con gli sconosciuti), con mogli e figli lo mandano avanti offrendo ai turisti il meglio in vino e cibi del territorio. A Cursi sono nati Oreste Macrì, grande ispanista che visse a Firenze, critico di Bodini, e Michele De Pietro, costituzionalista e primo Ministro di Giustizia dopo l’ultima guerra (1948): ha intitolato a Lecce il viale dove ha sede il Tribunale.
La sera è dolce e senza vento, il pubblico del piccolo evento in prevalenza di ragazze belle, more, assorte, la cucina spande odor di cose buone, pane che cuoce e s’indora, il morbido tepore dell’amicizia e della convivialità che ci invade con dolcezza (ci sono anche un ragazzo nero e una ragazza slava: Salento multietnico e multirazziale), il piacere sospeso, infinito, sottinteso di stare insieme sotto un cielo buio e condividere con tutti il pane, il vino nero, e dilatare un’emozione sino a scoprirne le radici. Lo scrittore-cult è nato a Mostar (Bosnia-Erzegovina), da anni è in stand-by per il Premio Nobel e presenta “Pane nostro” (Garzanti), romanzo uscito l’anno scorso dopo un’incubazione di oltre dieci anni, accolto con l’affetto di sempre da critica (“Rivela le sorprese del più comune degli alimenti”, Paolo Mauri, “La Repubblica”; “Quella del pane è una grande storia, ricca di sapienza e di poesia, d’arte e di fede”, Aldo Grasso, “Corriere della Sera”) e pubblico. Alcuni brani sono stati letti, con grande pathos, dall’attrice (studia a Roma) Alessandra De Luca. In autunno sarà a Leuca.
Dal 1994 vive a Roma, è professore di Slavistica alla “Sapienza”, nominato “per chiara fama”. E’ persona modesta, frugale, rispettoso delle parole: usa solo quelle davvero essenziali. Una di quelle persone con cui ci si sente subito in sintonia. Anche qui è la sua grandezza. Dunque, il pane quotidiano: oggi manca, rivela Predrag, a oltre un miliardo di persone, e le previsioni sono nere, entro 25 anni le cose peggioreranno: saremo 8 miliardi e oltre 2 non ne avranno abbastanza. Grazie anche alle governance che ci siamo dati. Non pare che i potenti della Terra se n’angustino, anzi, loro il pane lo buttano...
Domanda: Professor Matvejevic, nel suo libro si fa un apologo della mollica del pane…
Risposta: “Nelle antiche civiltà, quando già a 40 anni si restava senza denti, la mollica era preziosa, per la semplice ragione che la scorza non poteva essere mangiata. Nelle prigioni però il pane era così scarso che anche la crosta era preziosa”.
D. Perché il pane ebraico è azzimo?
R. “Gli Ebrei dovevano fuggire dalle truppe del Faraone, quindi non c’era il tempo per farlo lievitare. Per questo l’ostia cattolica si fa senza lievito. I pittori, però, nelle loro opere (penso all’Ultima Cena di Leonardo), ci sono riusciti”.
D. Perché da bambini le nostre madri ci sgridavano se mettevamo il pane all’inverso? Dicevano che era peccato, è come mettere Cristo a testa in giù...
R. “E’ una caratteristica delle culture molto severe. Prima quando il pane cadeva, la gente lo baciava e poi lo mangiava. Si conservava sempre in un luogo nascosto, appartato”.
D. Quale pane ama di più?
R. “Quello siciliano e sardo su tutti. Ma i Francesi sono il popolo che ha sviluppato di più la cultura del pane, a cui han dato varie forme”. D. Questo cibo antico è affollato di semantica: qual è il significato più pregnante?
R. “Il pane dà anche la misura dell’ospitalità: quando a casa di Abramo arrivano i forestieri, egli chiede alla moglie Sara di mettersi subito a fare il pane. Ma riflettiamo sul significato che ha per i mendicanti, ma anche sul rapporto che ha con i cinque sensi”.
D. A chi è dedicato questo bellissimo libro?
R. “Ai poveri di tutto il mondo, che sono la maggioranza, e che in futuro avranno sempre più fame, purtroppo…”.
Un anno fa a Cursi, nel Leccese, presentò “Pane nostro”. Fu una serata commovente. Lo scrittore tenne avvinto il suo pubblico nel cortile dell’Alogne, un locale dove si respira l’aria del tempo andato. Si rivelò parco di parole, frugale nei gesti, ma profondo nei concetti espressi. Si disse preoccupato per il futuro dell’umanità e di quelli che soffrono, i diseredati che in futuro avrebbero avuto meno pane. Alla fine gli facemmo qualche domanda, per approfondire i concetti del libro. Ci diede subito il biglietto da visita senza la spocchia di scrittorucoli montati da tv e uffici-stampa, che non sono degni di slacciargli le scarpe. Un segno ulteriore della sua grandezza. Riproponiamo quell’intervista, augurandogli anche noi lunghissima vita: ci confidò che gli sarebbe piaciuto presentare “Pane nostro” a Santa Maria di Leuca. Un piccolo “sogno” per cui ci siamo spesi in questi mesi.
“La mia infanzia è attraversata da un sogno: il pane”. Lo sguardo del grande scrittore si riempie di ricordi: quando la guerra incendiò l’Europa dei nazionalismi feroci spingendola in un baratro limaccioso e il poco pane che si riusciva a trovare era nero, o verde di muffa. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano…”, si pregava pe sfamare i bambini. Il padre, d’origine russa, era rinchiuso in un campo di lavoro nazista, il nonno e il prozio sepolti in un gulag staliniano dove la notte la temperatura scendeva a -40 e i prigionieri facevano a pezzi la pagnotta per non farsela rubare (Varlam Salamov in “Kolyma”): non torneranno più. Scene che fanno pensare a “Se questo è un uomo”, di Primo Levi (citato nel libro).
Lo scrittore Predrag Matvejevic è a Cursi, nel cuore di pietra dolce del Salento, terra di fame e sete, sotto il pergolato d’uva Gerusalemme del “Giardino di Alogne” (parola catalana: vuol dire
La sera è dolce e senza vento, il pubblico del piccolo evento in prevalenza di ragazze belle, more, assorte, la cucina spande odor di cose buone, pane che cuoce e s’indora, il morbido tepore dell’amicizia e della convivialità che ci invade con dolcezza (ci sono anche un ragazzo nero e una ragazza slava: Salento multietnico e multirazziale), il piacere sospeso, infinito, sottinteso di stare insieme sotto un cielo buio e condividere con tutti il pane, il vino nero, e dilatare un’emozione sino a scoprirne le radici. Lo scrittore-cult è nato a Mostar (Bosnia-Erzegovina), da anni è in stand-by per il Premio Nobel e presenta “Pane nostro” (Garzanti), romanzo uscito l’anno scorso dopo un’incubazione di oltre dieci anni, accolto con l’affetto di sempre da critica (“Rivela le sorprese del più comune degli alimenti”, Paolo Mauri, “La Repubblica”; “Quella del pane è una grande storia, ricca di sapienza e di poesia, d’arte e di fede”, Aldo Grasso, “Corriere della Sera”) e pubblico. Alcuni brani sono stati letti, con grande pathos, dall’attrice (studia a Roma) Alessandra De Luca. In autunno sarà a Leuca.
Dal 1994 vive a Roma, è professore di Slavistica alla “Sapienza”, nominato “per chiara fama”. E’ persona modesta, frugale, rispettoso delle parole: usa solo quelle davvero essenziali. Una di quelle persone con cui ci si sente subito in sintonia. Anche qui è la sua grandezza. Dunque, il pane quotidiano: oggi manca, rivela Predrag, a oltre un miliardo di persone, e le previsioni sono nere, entro 25 anni le cose peggioreranno: saremo 8 miliardi e oltre 2 non ne avranno abbastanza. Grazie anche alle governance che ci siamo dati. Non pare che i potenti della Terra se n’angustino, anzi, loro il pane lo buttano...
Domanda: Professor Matvejevic, nel suo libro si fa un apologo della mollica del pane…
Risposta: “Nelle antiche civiltà, quando già a 40 anni si restava senza denti, la mollica era preziosa, per la semplice ragione che la scorza non poteva essere mangiata. Nelle prigioni però il pane era così scarso che anche la crosta era preziosa”.
D. Perché il pane ebraico è azzimo?
R. “Gli Ebrei dovevano fuggire dalle truppe del Faraone, quindi non c’era il tempo per farlo lievitare. Per questo l’ostia cattolica si fa senza lievito. I pittori, però, nelle loro opere (penso all’Ultima Cena di Leonardo), ci sono riusciti”.
D. Perché da bambini le nostre madri ci sgridavano se mettevamo il pane all’inverso? Dicevano che era peccato, è come mettere Cristo a testa in giù...
R. “E’ una caratteristica delle culture molto severe. Prima quando il pane cadeva, la gente lo baciava e poi lo mangiava. Si conservava sempre in un luogo nascosto, appartato”.
D. Quale pane ama di più?
R. “Quello siciliano e sardo su tutti. Ma i Francesi sono il popolo che ha sviluppato di più la cultura del pane, a cui han dato varie forme”. D. Questo cibo antico è affollato di semantica: qual è il significato più pregnante?
R. “Il pane dà anche la misura dell’ospitalità: quando a casa di Abramo arrivano i forestieri, egli chiede alla moglie Sara di mettersi subito a fare il pane. Ma riflettiamo sul significato che ha per i mendicanti, ma anche sul rapporto che ha con i cinque sensi”.
D. A chi è dedicato questo bellissimo libro?
R. “Ai poveri di tutto il mondo, che sono la maggioranza, e che in futuro avranno sempre più fame, purtroppo…”.
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Cultura e Spettacoli