Le memorie del generale Mori dopo una vita “Ad alto rischio”

di Francesco Greco. “Catturammo Totò Riina per strada, lontano da casa sua, in via Bernini, 54, al termine di un’indagine eccezionale che premiò la strategia dei Ros…”. Metti una sera sotto le stelle, in Salento, col generale dei Carabinieri Mario Mori, a parlare di mafia e terrorismo, di Dalla Chiesa e Moro, Provenzano e Cossiga, Matteo Messina Denaro e Falcone, Ninetta Bagarella e Borsellino, di intelligence e misteri italiani: uno spaccato dell’Italia anni 70/80 ormai nei libri di Storia.
Accade a Miggiano (Lecce), a “Miggianosilibra”, la rassegna ideata dall’assessore alla cultura Michele Sperti che propone periodicamente incontri con scrittori e personalità che presentano i loro libri. La chiave di lettura delle memorie del prefetto che fondò i Ros, “Ad alto rischio” – La vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Totò Riina, (con Giovanni Fasanella), Mondadori 2011, pp. 150, € 17.50 è tutta in quella domanda amara come cicuta in quarta di copertina: “Perché da noi gli investigatori più bravi, quelli che ottengono risultati e mirano al bersaglio più grosso, rischiano sempre di fare una brutta fine?”. Già, perché?
Mori la rivolge a se stesso per tentare di dare una spiegazione agli anni tormentati della pensione in cui deve difendersi da accuse tragicomiche: il che per un servitore dello Stato è volgare, in considerazione anche del fatto che la giustizia italiana, per cui il passato non passa mai, ha il brutto vizio di correre dietro ai fantasmi di ieri, chiamando gli uomini (pensiamo anche all’uomo del Sisde Bruno Contrada) a spiegare cose e fatti decontestualizzati, quando il momento storico è un altro. Un vezzo della serie “Bella Italia, amate sponde…”.
Domanda: Generale Mori, lei è testimone di un passato consegnato agli archivi: pensa che il terrorismo può tornare a insanguinare la vita del Paese?
Risposta: “Non credo, mancano le condizioni ideologiche e sociali. E’ un fenomeno che non si ripete mai alla stessa maniera. Dalla Russia ottocentesca in poi è stato sempre così”.
D. Moro si poteva salvare?
R. “Ci furono dei tentativi, sia della politica che della Chiesa. Ma credo che le Br non lo avrebbero mai liberato, per il loro disegno politico pensavano fosse necessario ucciderlo”.
D. Si riparla di trattativa Stato-mafia, lei è tuttora indagato dalla Procura di Palermo: ci fu e in che modo avvenne?
R. “Sono un uomo delle istituzioni e le mie argomentazioni le darò in tribunale non ai giornalisti”.
D. Lei incontrò Ciancimino quando era sindaco di Palermo?
R. “Bisogna riferirsi al contesto in cui tutto avvenne. Falcone e Borsellino erano appena stati assassinati, Ciancimino era il livello più alto della mafia, in uno stato di oggettiva debolezza, sapeva di dover andare in carcere, la cosa che temeva di più, e infatti ci aiutò. In cambio chiedemmo Riina, di lì a poco arrestato”.
D. Esiste il famoso ‘papello’?
R. “No, è un documento scritto da ignoti. C’è invece il contro-papello, e quello è certamente di Ciancimino”.
D. Lei sostiene che a Palermo non tutti i pm erano decisi nel combattere Cosa Nostra…
R. “Ci arrivai nell’86, nell’89/90 iniziai a indagare su appalti pubblici e Cosa Nostra. Scoprii che al tavolo delle spartizioni sedevano tre soggetti: mafia, politici locali e amministratori locali. Arrestammo 5 persone su 44 posizioni. Il 19 luglio del ’92 uccisero Borsellino, il 22 la Procura archiviò la parte dell’inchiesta su mafia e appalti e i legami con la politica”.
D. La connivenza mafia-politica come avviene sul territorio?
R. “Con un atteggiamento di minore attenzione”.
D. O per interesse o non conoscenza la politica appare incerta nella lotta alla mafia, non capisce il ruolo dei servizi…
R. “Sono loro a dover dettare la linea, ma molti politici non ne capiscono nulla. Ne ho incontrati solo un paio all’altezza: Cossiga e Minniti”.
D. La storia d’Italia è segnata dai servizi deviati…
R. “Un’espressione che copre le inefficienze di molti ambienti”.
D. Conosce Bruno Contrada?
R. “Un uomo sfortunato, vissuto a cavallo di due epoche: al suo tempo si lavorava con le fonti, oggi con i pentiti. Ma non si può giudicare un uomo per cose avvenute negli anni ’80…”.
D. Intercettazioni: troppe?
R. “Si, c’è un abuso: occorrono solo quelle necessarie. E comunque un’intercettazione non è una prova”.
D. Quali sono i servizi più efficienti?
R. “Penso a quelli britannici e israeliani, nei sistemi democratici… I nostri sono eccellenti per capacità d’adattamento e brillantezza. Abbiamo bisogno di politici più attenti e intelligence più professionali”.
D. Si è mai sentito abbandonato dallo Stato?
R. “Abbandonato? Una parola forte… Ci sono stati momenti in cui ho percepito l’assenza delle istituzioni: la notte di Capodanno ’82 quando uccisero il generale Galvaligi: lo Stato non c’era, avevano tutti paura, ma Gallucci, Sica e Imposimato reagirono, e nel ’92, il giorno dell’assassinio di Borsellino, quano i tg ripassavano le parole di Caponnetto: "E’ finita, è finito tutto…".

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