Salento: migranti di ieri e oggi sospesi ai confini del tempo

di Francesco Greco. Sospesi sulla linea d’ombra del tempo, i migranti di ieri e d’oggi. Il fenomeno è come il serpente: muta pelle di continuo, offre sempre nuove interfacce. I flussi migratori sono speculari alla storia dell’umanità, la tracciano nel profondo: il melting-pot è una forza, una dialettica, una ricchezza reciproca: solo il serpeggiare infido di una cultura xenofoba può relativizzare l’archetipo. Metti una sera a Salve (Palazzo Ramirez), piccolo centro del sud-Salento, must del turismo mondiale (4 spiagge, 12 km di sabbia dal bagliore accecante: il paese salentino che ha più turisti: 100mila nel giorno medio), sotto le stelle a scavare una materia sempre attuale: ogni giorno dallo Jonio e l’Adriatico spuntano carichi pregni di umanità, speranze, sogni: quel che noi fummo appena ieri, in una terra che più contaminata non si potrebbe e che accoglie d’istinto, senza i parametri di Maastricht, Schengen, Bossi-Fini o Turco-Napolitano: banali tentativi di razionalizzare quel che sfugge a ogni scanner metodologico e normativo.

Su 4700 abitanti, Salve ha 2000 iscritti all’Aire (l’elenco dove i Comuni segnano chi se ne va, ieri con la valigia di cartone, oggi col pc nel trolley). E’ il paese della Puglia a più alto tasso di emigrazione. Terzo nel Leccese per numero di immigrati: dopo Lecce e San Cesario (da 3 mesi ospita all’hotel “L’Arca” 40 migranti da Senegal, Nigeria, Ciad, Libia, ecc.). Ottimamente organizzato dall’Associazione “Archès” (Lucugnano), l’evento, costruito da Marco Cavalera e Sandra Sammali con un sapiente equilibrio fra parole, immagini, silenzi, testimonianze live, vis polemica, è stato condotto da Giacomo Andrea Sergi. Immagini in b/n dell’altro secolo, quello “breve”: facce scure di sole, dignitose, qualche cravatta annodata alla svelta da mani callose, cartoline sgrammaticate di saluti, “sto bene e lo stesso spero di voi e aspetto pronta risposta”, pagine di diari naif: “oggi sono partito alla Svizera” (una zeta). Le rigorose visite mediche a Chiasso: chi non le superava doveva tornare a coltivare la terra amara degli agrari per un tozzo di pane duro e a farsi umiliare.

“Era 50 anni che aspettavo questa serata”, dice Antonio Coi, incisore, galleria d’arte a Neuchatel. Lasciò Salve a 15 anni, e racconta, racconta, racconta… Dal dopoguerra, come lui, 6 milioni di italiani han cercato pane e dignità lontano dalla patria “stanchi di zappare le terre dei don”, dice Donato Nuzzo. Ecco le baracche: anni ‘60, venne giù la diga di Mattmark e le schiacciò, 83 morti, 57 italiani: mai risarciti di un misero franco. I padroni hanno soldi e avvocati capaci di piegare il diritto a interessi di parte: cosa può fare chi sa solo piegare la schiena sotto il sole a “pala e picu”? Racconti di tragedie: la miniera di Marcinelle (Belgio, 1956), gli oltre 1000 morti, carcinoma provocato dall’amianto dell’eternit, sparsi fra Corsano, Tiggiano, Gagliano. Ecco un trailer commuovente: il grande Nino Manfredi in “Pane e cioccolata”, nella baracca improvvisa stornelli con la chitarra, un emigrante vesto da Gegia canta per scacciare la malinconia e la solitudine. Un altro piange… Il film “In nome del padre” di Nuzzo e Fulvio Rifuggio, prodotto da Isidoro Colluto (Mexapya Production), tutti di Castiglione di Andrano, figli di emigranti che hanno voluto sdebitarsi storicizzando il fenomeno tra Salento e Svizzera negli anni ‘70, mentre preparano il seguito (tema Eternit).

Grazie ai sacrifici dei padri hanno studiato, oggi sono professionisti, quelli in Svizzera dottori, avvocati, direttori di aziende e banche. Come alcuni salvesi al top: Giacomo Sammali ha diretto “Le Matin” (Losanna), oggi è passato a una tv, Tina Tasco-Coi è consigliere generale della città di Neuchatel e c’è persino una ragazza, cognome Vantaggio, sindaco di un paesino svizzero. “Qui – riflette il sindaco Vincenzo Passaseo – l’emigrazione ha lasciato segni nel corpo e nell’anima”. Sensibile sulla tematica, da anni ha aperto un canale comunicante con i “suoi” emigranti e di continuo li va a trovare fra Neuchatel e Cressier. Di recente ha ricevuto alcune donne tornate in paese: erano emigrate in Brasile, a San Paolo, 50 anni fa. Scorrono nella mente di un pubblico silenzioso ricordi condivisi: la terra rossa abbandonata, ulivi, valige con lo spago, frammenti di lettere, baracche umide, i vaglia rosa delle rimesse (il successo turistico di Salve è dovuto a quei sudati denari), nel Leccese 30 miliardi dal ‘58 al ’78, le littorine affollate, la panche di legno dei treni (da Lecce partiva alle 12.30, arrivava il giorno dopo alle 6 e 10), 10 mesi di solitudine, senza moglie e figli, 4 anni da stagionale, 5 annuale, poi il sospirato permesso C, gli italiani facevano i lavori che nessuno voleva fare, poi è toccato a spagnoli e portoghesi (oggi qui li fanno i migranti), le associazioni (“Ci cacciavano dai ristoranti di Neuchatel perché giocando a carte alzavamo la voce, nel 1971 nacque Famiglia Leccese: si friggevano peperoni e si mangiavano i piatti di casa…”), ricorda Marcello Fortis.

“Sono una vittima di Scharzenback”, afferma un altro Antonio Coi, pensionato – dopo il referendum anti-stranieri dovetti andare in Germania”. Ce ne furono due: 1970 e 1974: andò male, ce ne fu uno pure pro-stranieri, tanti svizzeri votarono a favore. “Animali dal coltello facile” gli italiani nell’immaginario svizzero. Lo scrittore Max Frisch li sdogana: “Abbiamo chiesto braccia, sono arrivati uomini: la Svizzera di oggi è grata agli italiani”. E poi la storia di Amadou: nel 2005 lascia il Senegal, dov’è capocantiere, moglie e due figli e va in Francia, poi Milano, vende libri sull’Africa e arriva in Salento: sposa Antonella Coletta, un altro bambino: si racconta in “Se Dio vuole - Inshallah”. Legge l’attore Riccardo Buffelli: “Modu Modu ci chiamano nel mio paese. Siamo quelli che lavorano sempre per mantenere chi, laggiù, non ha lavoro…”. Dice Amadou: “Ho scelto l’Italia, mi piace il vostro modo di vivere… Ho incontrato tanta gente e ognuno ha lasciato in me un segno… Al mio paese però la tv diffonde una realtà che non c’è, come se qui i soldi si trovassero a terra… Ma il lavoro è scarso, la sanatoria sempre da venire…”. Reggono l’economia senegalese sognando un bagno all’europea.

Altro racconto, di Giammaria Testa, Buffelli lo rende vivido, toccante: “l’odore delle stive / l’amaro del partire / una lingua da disimparare / e un’altra da imparare in fretta…” e “ho sognato il pane / caldo e profumato…”, da “La terra dei sogni”, di Romeo Site. Infine testimonianze, sogni e speranze raccolti e tradotti da Arci-Cassandra dei 40 africans “sospesi” in un albergo cittadino e degli avvocati baresi Luigi Paccione e Alessio Carlucci, “attori popolari” che han voluto vedere cos’accade al Cie (Centro identificazione espulsione) di Bari, lager che nei moduli format camere a gas ospita innocenti che non hanno commesso reati, in un’Italia dove l’uguaglianza è un’idea vaga scritta solo nella Costituzione, dove “l’uomo nasce diseguale”, e invece “dobbiamo sviluppare all’interno delle relazioni sociali una cultura antirazzista che spieghi la bellezza dell’individuo”. Hanno scritto al Ministero dell’Interno: nessun cenno di vita. Distante dall’uomo, la realtà, il potere ormai si muove su un’orbita sua frullando leggi dettate da un’etica delirante. Scampoli di fine regime.

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