di Francesco Greco
OTRANTO - Uffa! E basta compiti! Non è il grido di un bambino che preferisce paletta e secchiello a penne e quaderni, ma la teoria di un illustre pedagogo genovese, Maurizio Parodi, che ne ha fatto materia per il libro: “Basta compiti!” (Non è così che si impara), Editore Sonda, Casale Monferrato 2012, pp. 150, € 14 (contributi di Corrado Augias e Maurizio Maggiani).
Lo ha presentato a Otranto, libreria “Jonathas”, nei vicoli del centro antico.
Domanda: Prof. Parodi, lei dice: Basta compiti! Ma non è una teoria che si ritorce contro lo studente?
Risposta: “Credo sia opportuno rispondere ponendo altre domande. Qualcuno ha mai dimostrato che i compiti a casa sono utili? No. È possibile che affliggano molti studenti, procurando ripulsa per lo «studio» così «penosamente» inteso e proposto? Sì. Sono causa di ulteriore discriminazione a danno di chi sia più fragile, meno sostenuto/assistito? Sì. Si può «insegnare a imparare» in altro modo (senza abbandonare gli studenti allo svolgimento del compito che la scuola dovrebbe affrontare sopra ogni altro)? Sì. È decente costringere le famiglie ad accollarsi l'onere, anche economico, di un compito al quale i docenti dovrebbero dedicarsi con maggiore impegno? No”.
D. Anche il compito in classe è un feticcio da relativizzare?
R. “È il testo scolastico per antonomasia; nessuno sfugge a cotanta prova: le fortune e le disgrazie (non solo scolastiche) di moltissimi studenti sono affidate innanzitutto alla capacità di svolgere correttamente un tema. Di qui il precoce addestramento (i «pensierini»), coincidente, quasi sempre, con la semplice «esposizione» (all’errore). Quando uno studente scrive un tema, scrive a nessuno, per nessuna ragione (che non sia il dovere di farlo), tanto meno per sé, sapendo che tutto ciò che scrive potrà essere usato contro di lui.
Così vi si dispone non disdegnando espedienti anche deplorevoli, senza farsi scrupolo di ricorrere a meschini sotterfugi e squallidi imbrogli (legittimati dalla natura, appunto, estorsiva dell’operazione), praticati dagli stessi studenti divenuti ora insegnanti, perciò perseguiti con accanimento oppure blandamente tollerati, senza che ci si interroghi sulla miseria, innanzitutto pedagogica, di una scrittura mercenaria, sulla mortificazione, spesso definitiva, di una delle più eminenti attitudini umane”.
D. Lei si scaglia anche contro la poca educazione musicale, artistica, fisica: servirebbero più ore o il tempo pieno?
R. “L’offerta formativa della scuola è assai povera, mutilata di fondamentali insegnamenti: l’educazione artistica, l’educazione musicale, l’educazione fisica… sono pressoché ignorate o malamente praticate, nonostante interessino dimensioni dell’essere (umano) imprescindibili. Da qui la necessità di svolgere attività formative (irrinunciabili) al di fuori della scuola, oltre gli orari delle lezioni, che richiedono tempo, energie, impegno, esercizio… e che si aggiungono ai compiti a casa o che dai compiti a casa sono impedite. Va poi detto che i docenti operano nella reciproca ignoranza: ciascuno stabilisce i propri come fossero gli unici compiti da svolgere, senza curarsi di verificare (nemmeno questo scrupolo: manco si parlano) quali e quanti altri compiti, assegnati dai colleghi, si dovranno svolgere nella stessa giornata, con il risultato di costringere per interi pomeriggi (e anche serate) a un impegno estenuante corpi e menti bisognosi di «moto» rigenerante; perciò capita, non di rado, che i genitori si sostituiscano, forzatamente, non solo ai docenti, ma anche ai figli nell’adempimento degli obblighi «domestici»”.
D. Il tempo pieno non è di per sé una garanzia: pieno di cosa?
R. “In molti casi si praticano le stesse attività (del tempo normale) e si infliggono i compiti persino nei giorni feriali, in aggiunta alle 8 ore di lavoro quotidiano: nessun'altra categoria di lavoratori (e quello scolastico è un lavoro molto impegnativo, talvolta alienante e per giunta non retribuito) accetterebbe di prolungare nel tempo libero, e meno che mai di svolgere durante le ferie, compiti professionali imposti”.
D. Che pensa dei libri di testo? Da studenti li odiamo, appena possiamo li buttiamo…
R. “Tentano una mediazione teorica per arrivare a una logica onnicomprensiva, chiara, didatticamente malleabile, pronta all’uso: una cultura standard, espressa da una lingua standard che, proprio perché standard, non può che essere astratta, perciò affettivamente e cognitivamente insignificante. La scuola, tramite i libri di testo collocati strategicamente al centro del processo di insegnamento-apprendimento induce “subliminalmente” la convinzione che il pensiero sia solo quello consolidato dalla tradizione nelle forme canoniche e legittimato dalla comunità scientifica (sempre che non sia presentato come verità assoluta). Così si abitua lo studente a diffidare delle proprie intuizioni, delle proprie logiche, del proprio pensiero, addestrandolo alla ripetizione, magari “con parole sue”, e avvalorando l’idea che pensare a proposito di un pensiero sia la stessa cosa che riformulare (parafrasare) quel pensiero – salvo poi lamentare l’incapacità dei ragazzi a esprimere valutazioni personali, a proporre interpretazioni originali, a elaborare un pensiero creativo”.
D. … e dei classici della letteratura italiana?
R. “Non possiamo fingere di non sapere che il libro più studiato nelle scuole, I promessi sposi, è “il più odiato dagli italiani”, e probabilmente il meno letto, per intero s'intende, fatta cioè eccezione per le parti delle quali è stata imposta l'analisi letteraria. Così “il libro diventa un oggetto contundente, un blocco di eternità , la materializzazione della noia”, ammonisce Daniel Pennac. Quando gli è stato chiesto cos'è un “classico”, in senso letterario, Umberto Eco non ha avuto esitazioni: “E’ un libro che tutti odiano perché sono stati costretti a leggerlo a scuola”. Una gravissima mutilazione culturale, e non solo, praticata dalla scuola con indefesso quanto miope accanimento”.
OTRANTO - Uffa! E basta compiti! Non è il grido di un bambino che preferisce paletta e secchiello a penne e quaderni, ma la teoria di un illustre pedagogo genovese, Maurizio Parodi, che ne ha fatto materia per il libro: “Basta compiti!” (Non è così che si impara), Editore Sonda, Casale Monferrato 2012, pp. 150, € 14 (contributi di Corrado Augias e Maurizio Maggiani).
Lo ha presentato a Otranto, libreria “Jonathas”, nei vicoli del centro antico.
Domanda: Prof. Parodi, lei dice: Basta compiti! Ma non è una teoria che si ritorce contro lo studente?
Risposta: “Credo sia opportuno rispondere ponendo altre domande. Qualcuno ha mai dimostrato che i compiti a casa sono utili? No. È possibile che affliggano molti studenti, procurando ripulsa per lo «studio» così «penosamente» inteso e proposto? Sì. Sono causa di ulteriore discriminazione a danno di chi sia più fragile, meno sostenuto/assistito? Sì. Si può «insegnare a imparare» in altro modo (senza abbandonare gli studenti allo svolgimento del compito che la scuola dovrebbe affrontare sopra ogni altro)? Sì. È decente costringere le famiglie ad accollarsi l'onere, anche economico, di un compito al quale i docenti dovrebbero dedicarsi con maggiore impegno? No”.
D. Anche il compito in classe è un feticcio da relativizzare?
R. “È il testo scolastico per antonomasia; nessuno sfugge a cotanta prova: le fortune e le disgrazie (non solo scolastiche) di moltissimi studenti sono affidate innanzitutto alla capacità di svolgere correttamente un tema. Di qui il precoce addestramento (i «pensierini»), coincidente, quasi sempre, con la semplice «esposizione» (all’errore). Quando uno studente scrive un tema, scrive a nessuno, per nessuna ragione (che non sia il dovere di farlo), tanto meno per sé, sapendo che tutto ciò che scrive potrà essere usato contro di lui.
Così vi si dispone non disdegnando espedienti anche deplorevoli, senza farsi scrupolo di ricorrere a meschini sotterfugi e squallidi imbrogli (legittimati dalla natura, appunto, estorsiva dell’operazione), praticati dagli stessi studenti divenuti ora insegnanti, perciò perseguiti con accanimento oppure blandamente tollerati, senza che ci si interroghi sulla miseria, innanzitutto pedagogica, di una scrittura mercenaria, sulla mortificazione, spesso definitiva, di una delle più eminenti attitudini umane”.
D. Lei si scaglia anche contro la poca educazione musicale, artistica, fisica: servirebbero più ore o il tempo pieno?
R. “L’offerta formativa della scuola è assai povera, mutilata di fondamentali insegnamenti: l’educazione artistica, l’educazione musicale, l’educazione fisica… sono pressoché ignorate o malamente praticate, nonostante interessino dimensioni dell’essere (umano) imprescindibili. Da qui la necessità di svolgere attività formative (irrinunciabili) al di fuori della scuola, oltre gli orari delle lezioni, che richiedono tempo, energie, impegno, esercizio… e che si aggiungono ai compiti a casa o che dai compiti a casa sono impedite. Va poi detto che i docenti operano nella reciproca ignoranza: ciascuno stabilisce i propri come fossero gli unici compiti da svolgere, senza curarsi di verificare (nemmeno questo scrupolo: manco si parlano) quali e quanti altri compiti, assegnati dai colleghi, si dovranno svolgere nella stessa giornata, con il risultato di costringere per interi pomeriggi (e anche serate) a un impegno estenuante corpi e menti bisognosi di «moto» rigenerante; perciò capita, non di rado, che i genitori si sostituiscano, forzatamente, non solo ai docenti, ma anche ai figli nell’adempimento degli obblighi «domestici»”.
D. Il tempo pieno non è di per sé una garanzia: pieno di cosa?
R. “In molti casi si praticano le stesse attività (del tempo normale) e si infliggono i compiti persino nei giorni feriali, in aggiunta alle 8 ore di lavoro quotidiano: nessun'altra categoria di lavoratori (e quello scolastico è un lavoro molto impegnativo, talvolta alienante e per giunta non retribuito) accetterebbe di prolungare nel tempo libero, e meno che mai di svolgere durante le ferie, compiti professionali imposti”.
D. Che pensa dei libri di testo? Da studenti li odiamo, appena possiamo li buttiamo…
R. “Tentano una mediazione teorica per arrivare a una logica onnicomprensiva, chiara, didatticamente malleabile, pronta all’uso: una cultura standard, espressa da una lingua standard che, proprio perché standard, non può che essere astratta, perciò affettivamente e cognitivamente insignificante. La scuola, tramite i libri di testo collocati strategicamente al centro del processo di insegnamento-apprendimento induce “subliminalmente” la convinzione che il pensiero sia solo quello consolidato dalla tradizione nelle forme canoniche e legittimato dalla comunità scientifica (sempre che non sia presentato come verità assoluta). Così si abitua lo studente a diffidare delle proprie intuizioni, delle proprie logiche, del proprio pensiero, addestrandolo alla ripetizione, magari “con parole sue”, e avvalorando l’idea che pensare a proposito di un pensiero sia la stessa cosa che riformulare (parafrasare) quel pensiero – salvo poi lamentare l’incapacità dei ragazzi a esprimere valutazioni personali, a proporre interpretazioni originali, a elaborare un pensiero creativo”.
D. … e dei classici della letteratura italiana?
R. “Non possiamo fingere di non sapere che il libro più studiato nelle scuole, I promessi sposi, è “il più odiato dagli italiani”, e probabilmente il meno letto, per intero s'intende, fatta cioè eccezione per le parti delle quali è stata imposta l'analisi letteraria. Così “il libro diventa un oggetto contundente, un blocco di eternità , la materializzazione della noia”, ammonisce Daniel Pennac. Quando gli è stato chiesto cos'è un “classico”, in senso letterario, Umberto Eco non ha avuto esitazioni: “E’ un libro che tutti odiano perché sono stati costretti a leggerlo a scuola”. Una gravissima mutilazione culturale, e non solo, praticata dalla scuola con indefesso quanto miope accanimento”.