Russo, il respiro gioioso della libertà

di Francesco Greco. Una farfalla, una lumaca, un aquilone, una nuvola. In ogni opera di Roberto Russo c’è l’invito a sbarazzarsi delle proprie paure e insicurezze, e correre sul sentiero degli uomini liberi, finalmente in armonia con se stessi, gli altri, l’Universo. E’ una costante della pittura di questo artista “nascosto”, amatissimo all’estero (in Germania soprattutto colgono l’energia vitale e la solarità della sua opera), e che oltre a dipingere col tocco dei grandi è anche poeta (“Nuvole”, 2000, tradotto in tedesco, e “D’amore e d’ombra”, 2008) e scrittore (“Ritratti diversi”, 2005: tutti pubblicati con le “Edizioni Insieme” di Terlizzi, Bari).

Si direbbe quasi che esista nel mondo leggero e vago dell’Iperurano, eppure materiale, “umano, troppo umano”, direbbe Nietsche. L’empireo dove troviamo le idee immortali, scampoli di bellezza a buon mercato, squarci di poesia, ipotesi di felicità, postulati di armonia. E dove tutto è possibile, soprattutto l’impossibile, e tutti vorremmo abitare. In attesa della mostra di ottobre, a Milano, Russo (salentino di Montesardo, la messapica Trachion Oros, studi all’Accademia di Belle Arti di Lecce, dal 1988 lavora all’Istituto per diversamente abili di Gagliano del Capo), propone un saggio delle ultime opere a Borgo Cardigliano, Sala dei Melograni, Specchia. Titolo: “L’Utopia Gioiosa” (vernissàge domani sera, 30 agosto, ore 19, sino al 30 settembre), curatore Carlo Franza nel contesto del Nuovo Atlante delle Arti, progetto artistico internazionale ideato e diretto dallo storico dell’arte e critico di “Libero” “bandendo ogni culto del transitorio per porgere a tutti il culto dell’eterno… perché il futuro è ora”.

Dopo il periodo sulfureo, con una critica radicale alla religione in cui Russo ha proposto alti prelati della Chiesa ingabbiati, intrappolati (da chi? da loro stessi?), impaludati in vesti sontuose che sono uno sprezzo per chi muore di fame a ogni angolo della Terra, ora l’artista attraversa la fase dei ghirigori barocchi (vedi foto dell’opera intitolata “Decorazione”), labirinti minoici in cui ci siamo perduti tutti quanti senza nemmeno avere il gomitolo di filo per tentare di ritrovare l’uscita. La foresta semantica che ci avvolge ci confonde e ci stordisce. E mentre i valori classici che ci hanno formati sono in crisi, altri all’orizzonte non se ne intravedono. E così il cammino si è fatto arduo, accidentato, aspro, la navigazione a vista, insidiata da infidi iceberg. Così ci aggiriamo inquieti nei meandri della modernità tra spinte all’omologazione e lacerazioni dell’essere, memoria atomizzata e insonne virtualità.

Ma quei labirinti contengono anche, a saperli indovinare, omini stilizzati catturati in movimenti convulsi, persone qualunque che l’avventura dell’esistere ci pone sulla strada in un gioco quotidiano degli incontri che pure è modulato sull’effimero e la banalità, ma che sta a noi rendere gratificante. Forse la chiave è nel fermarsi a raccontare e raccontarsi, ascoltare soprattutto, porsi in termini di dialogo e di convivio con gli altri viandanti. Partecipare dell’umanità, come direbbe Hemingway. Russo ci vuole dire che non tutto è perduto, che in fondo al tunnel c’è un’esile luce e sedendosi all’ombra dei vicoli angusti delle sue opere a condividere, in un tempo di brutale afasia in cui parlano solo quelli che non hanno nulla da dire (la tv per prima), la koinè, i sogni, la speranza, il poco pane che abbiamo con gli altri, forse ritroveremo la sintonia perduta con noi stessi, con le altre comparse dello show must go on, con i mondi possibili.