di Francesco Greco. “La terra è bassa” si sente dire da tempi infiniti nelle lande scorticate, sitibonde del Sud. Strano, si dice così anche in Friuli: la koinè della terra è universale, una e una sola. Al Sud del mondo senti borbottare: “La terra non l’hai mai a pagare”, nel senso che con chi la ama è generosa e non ti sdebiti mai per quello che ti dà. Magari è un modo di dire anche nella terra di Pasolini, il primo ad accorgersi con dolore di una deriva, che l’abbandono delle zolle era anche un esproprio ex abrupto di cultura e identità, l’omologazione su format estranei, violenti nel recidere radici ai popoli. La globalizzazione ha finito il lavoro.
Mezzo secolo dopo, quando ormai la subcultura feticista del Grande Fratello, e più in generale del guardare che ci ha resi stolti voyer adiposi e cattivi ha vinto, qualcuno dice che è ora di finirla, i tempi sono maturi per relativizzare la modernità alienante e insipiente, di tracciare un’inversione di tendenza. “Pecoranera”, di Devis Bonanni, Marsilio Editore, Venezia 2012, pp. 202, € 15.50 (Collana “Gli Specchi”) è la storia commuovente di un ritorno a Geo, il recupero di un cordone ombelicale troppo in fretta reciso, un richiamo, una rivolta antropologica forse generazionale da scannerizzare, destrutturare sotto ogni aspetto.
Un ragazzo che mentre i suoi coetanei, la generazione-spam, si fanno di droghe, sbavano per la felpa firmata e si accalcano come tonni alla mattanza al casting del GF si ferma a chiacchierare con i vecchi contadini per carpire antichi segreti su come si coltivano zucchine e pomodori e si fanno più belli indivia e radicchio, meriterebbe una serata in tv invece delle cazzate di politici defunti, autoreferenziati, irresponsabili, che discettano del loro ombelico, concentrati sui benefit, come conservarli, accrescerli, o un saggio bello tosto sul perchè si può lasciare un lavoro di programmatore per la terra osando l’azzardo di riuscire a viverci.
Devis ha tracciato un stop-and-go che potrebbe essere un trend, icona di “una comunità mai rappresentata in nessun media tradizionale”. L’esproprio culturale, la lacerazione è stata così violenta che proprio la nonna, giovane vedova di un partigiano, è la più dura nell’ostacolare una scelta incomprensibile, fuori tempo (“Sei uno stupido, perché stai là a perder tempo?”, urla “come avesse in corpo il demonio” quando lo becca a vangare l’orto: “percepiva la mia iniziativa come un grave atto reazionario”), che rappresenta anche una frattura col proprio status piccolo borghese (la madre è professoressa di lettere): “La mia famiglia non ha mai avuto a che fare con la terra”. Lei sa sulla sua pelle la fatica, le amarezze, le delusioni di chi vive nei campi: tant’è che appena hanno potuto i contadini friulani sono scappati nel triangolo industriale o all’estero a farsi operai. “La terra non prolifica più”, sentenzia. Trovare del buon letame per ingrassarla è sempre più difficile. Involontaria metafora di un tempo in cui il cibo non sazia, il sole scotta non scalda, tutto è sterile e “il bosco viene avanti” ruminano i vecchi all’osteria.
Devis però non è un illuso, un velleitario facile da suggestionare: ha letto Thoureau (“Come poteva un filosofo dell’Ottocento aver veduto così chiaramente le perversioni di una neonata modernità?”), “Il libro dell’orto frutteto” di Seymour, è passato per gli ecovillaggi in Toscana, dietro alle balle di fieno ha ascoltato il comunista Guerrino, ma non è rimasto: “Vorrei costruire qualcosa di mio”. Ha bazzicato l’anarchismo (simula un’iscrizione all’Università per non servire lo Stato), ha sfogliato il saggio dell’antropologo inglese Patrick Heady che ha studiato i montanari della Carnia, che alla fine è diventata la sua “terra promessa” in evidente sintonia con la filosofia della decrescita di Latouche: “padroni e schiavi di se stessi”.
3 edizioni in poche settimane: “Pecoranera” è un “caso” editoriale che segna anche un’inversione di tendenza nell’editoria: se è vero che Mondadori ha perso, nell’ultimo semestre, il 67%, i tempi stanno fortunatamente cambiando e spacciare libri scritti da amebe autoreferenziate che si atteggiano a filosofi del copincolla sol perchè svernano nel tubo catodico d’ora in poi sarà difficile. Devis ha dato un calcio al vuoto spinto in cui ci hanno cacciati, il tunnel viscido di nichilismo in cui ci spingono, gli archetipi rarefatti che ispirano la nostra vita e corrompono la percezione. Ci dice che farsi dettare i tempi dalla natura, “farmi bagnare le labbra dalla pioggia” è più bello dello stravaccarsi sui divani del GF a pontificare del nulla che corrompe la nostra mente, mentre il crepuscolo che ci attende. Al tempo di bamboccioni e nerd, il ragazzo (oggi ha 28 anni) più saggio di un filosofo e sapiente di un contadino da generazioni, è un guru che vive di incanti quotidiani (quando vende i primi pomodori), di sfide con se stesso, mettendosi in gioco. “Pecoranera” ha disarticolato la scala dei valori che ci hanno cucito addosso e ci dice che c’è altro: la bellezza, la poesia, l’ironia, il sudore, talvolta le lacrime (quando la grandine gli distrugge l’orto, ma “la Natura ritorna sempre alla vita e noi con lei”): la vita, non quella sublimata ma reale per cui siamo qua e che la fa degna di essere attraversata come un raggio di sole nel cielo di novembre che annuncia la primavera. Senza fretta.
Mezzo secolo dopo, quando ormai la subcultura feticista del Grande Fratello, e più in generale del guardare che ci ha resi stolti voyer adiposi e cattivi ha vinto, qualcuno dice che è ora di finirla, i tempi sono maturi per relativizzare la modernità alienante e insipiente, di tracciare un’inversione di tendenza. “Pecoranera”, di Devis Bonanni, Marsilio Editore, Venezia 2012, pp. 202, € 15.50 (Collana “Gli Specchi”) è la storia commuovente di un ritorno a Geo, il recupero di un cordone ombelicale troppo in fretta reciso, un richiamo, una rivolta antropologica forse generazionale da scannerizzare, destrutturare sotto ogni aspetto.
Un ragazzo che mentre i suoi coetanei, la generazione-spam, si fanno di droghe, sbavano per la felpa firmata e si accalcano come tonni alla mattanza al casting del GF si ferma a chiacchierare con i vecchi contadini per carpire antichi segreti su come si coltivano zucchine e pomodori e si fanno più belli indivia e radicchio, meriterebbe una serata in tv invece delle cazzate di politici defunti, autoreferenziati, irresponsabili, che discettano del loro ombelico, concentrati sui benefit, come conservarli, accrescerli, o un saggio bello tosto sul perchè si può lasciare un lavoro di programmatore per la terra osando l’azzardo di riuscire a viverci.
Devis ha tracciato un stop-and-go che potrebbe essere un trend, icona di “una comunità mai rappresentata in nessun media tradizionale”. L’esproprio culturale, la lacerazione è stata così violenta che proprio la nonna, giovane vedova di un partigiano, è la più dura nell’ostacolare una scelta incomprensibile, fuori tempo (“Sei uno stupido, perché stai là a perder tempo?”, urla “come avesse in corpo il demonio” quando lo becca a vangare l’orto: “percepiva la mia iniziativa come un grave atto reazionario”), che rappresenta anche una frattura col proprio status piccolo borghese (la madre è professoressa di lettere): “La mia famiglia non ha mai avuto a che fare con la terra”. Lei sa sulla sua pelle la fatica, le amarezze, le delusioni di chi vive nei campi: tant’è che appena hanno potuto i contadini friulani sono scappati nel triangolo industriale o all’estero a farsi operai. “La terra non prolifica più”, sentenzia. Trovare del buon letame per ingrassarla è sempre più difficile. Involontaria metafora di un tempo in cui il cibo non sazia, il sole scotta non scalda, tutto è sterile e “il bosco viene avanti” ruminano i vecchi all’osteria.
Devis però non è un illuso, un velleitario facile da suggestionare: ha letto Thoureau (“Come poteva un filosofo dell’Ottocento aver veduto così chiaramente le perversioni di una neonata modernità?”), “Il libro dell’orto frutteto” di Seymour, è passato per gli ecovillaggi in Toscana, dietro alle balle di fieno ha ascoltato il comunista Guerrino, ma non è rimasto: “Vorrei costruire qualcosa di mio”. Ha bazzicato l’anarchismo (simula un’iscrizione all’Università per non servire lo Stato), ha sfogliato il saggio dell’antropologo inglese Patrick Heady che ha studiato i montanari della Carnia, che alla fine è diventata la sua “terra promessa” in evidente sintonia con la filosofia della decrescita di Latouche: “padroni e schiavi di se stessi”.
3 edizioni in poche settimane: “Pecoranera” è un “caso” editoriale che segna anche un’inversione di tendenza nell’editoria: se è vero che Mondadori ha perso, nell’ultimo semestre, il 67%, i tempi stanno fortunatamente cambiando e spacciare libri scritti da amebe autoreferenziate che si atteggiano a filosofi del copincolla sol perchè svernano nel tubo catodico d’ora in poi sarà difficile. Devis ha dato un calcio al vuoto spinto in cui ci hanno cacciati, il tunnel viscido di nichilismo in cui ci spingono, gli archetipi rarefatti che ispirano la nostra vita e corrompono la percezione. Ci dice che farsi dettare i tempi dalla natura, “farmi bagnare le labbra dalla pioggia” è più bello dello stravaccarsi sui divani del GF a pontificare del nulla che corrompe la nostra mente, mentre il crepuscolo che ci attende. Al tempo di bamboccioni e nerd, il ragazzo (oggi ha 28 anni) più saggio di un filosofo e sapiente di un contadino da generazioni, è un guru che vive di incanti quotidiani (quando vende i primi pomodori), di sfide con se stesso, mettendosi in gioco. “Pecoranera” ha disarticolato la scala dei valori che ci hanno cucito addosso e ci dice che c’è altro: la bellezza, la poesia, l’ironia, il sudore, talvolta le lacrime (quando la grandine gli distrugge l’orto, ma “la Natura ritorna sempre alla vita e noi con lei”): la vita, non quella sublimata ma reale per cui siamo qua e che la fa degna di essere attraversata come un raggio di sole nel cielo di novembre che annuncia la primavera. Senza fretta.