BARI. C'è un solo modo per consentire che il territorio tarantino, gravato da un inquinamento che si è stratificato nei decenni, possa essere bonificato: impedire che l'Ilva chiuda i battenti e la città venga abbandonata. Ne consegue che chi ancora propugna lo spegnimento degli impianti in nome di un malinteso ecologismo, parteggia in realtà per l'unica soluzione che oltre a mettere in ginocchio decine di migliaia di famiglie precluderebbe a Taranto la possibilità di qualsiasi serio risanamento ambientale.
Al fondo, colpendo l'Ilva si pensa di annientare in un sol colpo l'inquinamento e quello sterco del diavolo chiamato profitto, al quale la nuova ideologia ecologista ha dichiarato guerra puntando sulla decrescita come frontiera più avanzata attraverso la quale perpetuare il mito antico della lotta di classe. Vi è infatti un dato che balza agli occhi di tutti: quando l'Ilva si chiamava Italsider, l'inquinamento era molto superiore rispetto ai livelli attuali. Ma non ci furono grosse proteste perché si trattava di un inquinamento di Stato, e dunque è come se in qualche modo facesse meno male. La privatizzazione poi ha salvato la città; ha introdotto nella gestione dell'Ilva la dimensione del profitto che ha diminuito le emissioni nocive, pur non eliminandole, ma è come se per l'opinione pubblica e per alcune forze politiche le avesse rese più inaccettabili.
Questo non-senso ha reso il terreno fertile per l'intervento della magistratura, sollecitata a entrare in campo - diciamoci le cose come stanno - anche da una parte della stessa politica, che in qualche modo ha negato la propria funzione. Ovviamente la magistratura non ha l'elasticità dell'intervento politico e forse, in qualche caso, manca anche della volontà di misurare talune iniziative con il metro della ragionevolezza e del bene comune. A questo ci ha portato il gioco pericoloso di chi ha ideologicamente soffiato sul disagio.
Il fatto inedito è la rivolta della vecchia ideologia sociale contro il nuovo ecologismo post-moderno: oggi i primi a contestare l'idea che tutela dell'ambiente e sviluppo economico siano le polarità di un conflitto risolvibile solo con la decrescita e l'abbattimento del PIL sono proprio gli operai e i sindacalisti, consapevoli più di tanti nuovi ideologi, magari seduti alla testa di una Regione, che se non si portano sviluppo, salute e ambiente a integrarsi, l'Italia rischia la desertificazione industriale. Tra poco potremmo dover dire che questo non è più un Paese per imprenditori. Il dato confortante è che la stessa consapevolezza in questo frangente l'ha mostrata il Governo e in particolare, senza captatio benevolentiae, il ministro dell'ambiente Corrado Clini. Il nostro sostegno nei confronti dell'Esecutivo è sempre stato - lei lo sa, Ministro - tutt'altro che acritico, ma proprio per questo l'onestà intellettuale ci impone oggi sul caso Ilva di riconoscere al Governo di aver individuato la strada da intraprendere e di averla perseguita senza farsi incantare dalle tante sirene disseminate lungo il cammino.
A riferirlo durante un intervento in aula dopo l'informativa del Governo sul caso Ilva il vicecapogruppo Gaetano Quagliariello (Pdl).
Al fondo, colpendo l'Ilva si pensa di annientare in un sol colpo l'inquinamento e quello sterco del diavolo chiamato profitto, al quale la nuova ideologia ecologista ha dichiarato guerra puntando sulla decrescita come frontiera più avanzata attraverso la quale perpetuare il mito antico della lotta di classe. Vi è infatti un dato che balza agli occhi di tutti: quando l'Ilva si chiamava Italsider, l'inquinamento era molto superiore rispetto ai livelli attuali. Ma non ci furono grosse proteste perché si trattava di un inquinamento di Stato, e dunque è come se in qualche modo facesse meno male. La privatizzazione poi ha salvato la città; ha introdotto nella gestione dell'Ilva la dimensione del profitto che ha diminuito le emissioni nocive, pur non eliminandole, ma è come se per l'opinione pubblica e per alcune forze politiche le avesse rese più inaccettabili.
Questo non-senso ha reso il terreno fertile per l'intervento della magistratura, sollecitata a entrare in campo - diciamoci le cose come stanno - anche da una parte della stessa politica, che in qualche modo ha negato la propria funzione. Ovviamente la magistratura non ha l'elasticità dell'intervento politico e forse, in qualche caso, manca anche della volontà di misurare talune iniziative con il metro della ragionevolezza e del bene comune. A questo ci ha portato il gioco pericoloso di chi ha ideologicamente soffiato sul disagio.
Il fatto inedito è la rivolta della vecchia ideologia sociale contro il nuovo ecologismo post-moderno: oggi i primi a contestare l'idea che tutela dell'ambiente e sviluppo economico siano le polarità di un conflitto risolvibile solo con la decrescita e l'abbattimento del PIL sono proprio gli operai e i sindacalisti, consapevoli più di tanti nuovi ideologi, magari seduti alla testa di una Regione, che se non si portano sviluppo, salute e ambiente a integrarsi, l'Italia rischia la desertificazione industriale. Tra poco potremmo dover dire che questo non è più un Paese per imprenditori. Il dato confortante è che la stessa consapevolezza in questo frangente l'ha mostrata il Governo e in particolare, senza captatio benevolentiae, il ministro dell'ambiente Corrado Clini. Il nostro sostegno nei confronti dell'Esecutivo è sempre stato - lei lo sa, Ministro - tutt'altro che acritico, ma proprio per questo l'onestà intellettuale ci impone oggi sul caso Ilva di riconoscere al Governo di aver individuato la strada da intraprendere e di averla perseguita senza farsi incantare dalle tante sirene disseminate lungo il cammino.
A riferirlo durante un intervento in aula dopo l'informativa del Governo sul caso Ilva il vicecapogruppo Gaetano Quagliariello (Pdl).