''Non ho mai pensato ad un figlio come ad un giocattolo, ma come alla sfida più bella con noi stessi. In tanti mi chiedono: perché vuoi essere padre? E’ una discussione delicata e difficile, perché si cammina a piedi nudi su una terra a lungo minata. Proverò a dirmi, con sincerità.
Padre, madre. Il principio generatore, il seme della vita, il grembo che accoglie. Madre, padre. Sono i primi sorrisi che abbiamo messo a fuoco venendo al mondo, i primi nomi che abbiamo inteso pronunciare anche biascicando fonemi un po’ buffi, l’alfa e l’omega del nostro lessico relazionale. La genitorialità è un’esperienza radicale, ci pone dinanzi al nostro limite esistenziale, scuote in radice il nostro sentimento di onnipotenza, ci colloca con più consapevolezza nella sequenza storica delle generazioni che si succedono le une e le altre. Mi è capitato di riflettere sui genitori che invecchiano, che invecchiando capovolgono tutti i codici comportamentali, diventano figli dei loro figli: si invertono i ruoli tra chi protegge e chi è protetto, i nostri vecchi diventano come bimbi e talora come neonati.
E’ un’esperienza strana e spesso dolorosa, ma ci istruisce rapidamente sugli alfabeti anche oscuri dell’amore. Essere figli è davvero un mestiere complicato. Si può camminare sulla fune tra la voglia di non abbandonare la culla e le repentine maturazioni coatte, tra il desiderio di essere accudito per sempre e il desiderio di evadere dalla casa natale, tra il calore del riparo familiare e la freschezza persino frizzante della fuga. Mi è piaciuto da morire essere figlio, imparandone le prerogative, scegliendo ogni giorno di rinnovare il “contratto sentimentale” con i miei vecchi. Splendidi, ruggenti vecchi innamorati del mare, dell’allegria, dello stare assieme a intrecciare racconti. Poi ho persino imparato ad esercitare protezione sulle loro senili fragilità. Non c’è nulla di più coinvolgente di questo dialogo, di questa tensione, di questa girandola di età che si scontrano e che si mettono in gioco.
Non ho mai pensato ad un figlio come ad un giocattolo, ma come al più impegnativo dei compiti. Crescerlo, dargli sicurezza, ascoltarlo. Accoglierlo come soggetto pieno e non come una miniatura d’adulto. Mi piacerebbe crescere un bimbo, una bimba, tanti bimbi. Non ho mai sopportato l’idea che questo mio desiderio potesse essere spettacolarizzato e strumentalizzato, ma non sopporto più l’idea di doverlo occultare. E mi chiedo scusa se mi uso per parlare di buona politica: e cioè se parto da me per dire l’insopportabilità di vivere appesi a nessun diritto o a mezzi diritti, mentre occorre rivendicare diritti interi ed eguali per tutti e tutte. Se non ora, quando?''. Così la lettera di Nichi Vendola inviata a 'Pubblico'.
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