(Foto: lo scrittore Tito Barbini) |
Salesiano, fratello del famoso editore, ai primi del Novecento il giovane prete si avventurò in una terra non ancora segnata sulle mappe geografiche, intonsa, misteriosa, bellissima: le regioni australi della Terra del Fuoco e la Patagonia “profonda”. E ne rimase affascinato, tanto da decidere di viverci solcandola da cima a fondo, dando voce agli Indios, aprendo scuole nella foresta, battendosi strenuamente per i loro diritti più elementari, primo quello a esistere.
Conquistò cuori, folgorò menti, anche quella del grande poeta cileno Pablo Neruda, che quando alla notizia della sua morte (era nato a Pollone, sulle montagne biellesi, il 2 novembre 1883, morì il 25 dicembre 1960) scrisse: “E’ morto lontano dal Cile, paese che tanto amò. Le sue opere mostrarono il paesaggio maestoso della nostra cordillera, dei nostri fiumi e della nostra bellezza millenaria. Attraverso questo uomo esemplare il Cile si riconosce nel Vecchio Mondo (…). Che tutti abbiano ammirazione per lui, perché con semplicità ci ha consegnato le sue profonde verità…”.
Ma cosa resta oggi in Argentina e in Cile del “cacciatore di ombre” italiano? Come ricordano il suo passaggio, le opere, le orme che ha inciso nella terra e lasciato profonde nell’immaginario collettivo? Lo scrittore Tito Barbini, che da anni frequenta l’America del Sud, ci aiuta a ricordarlo, mentre l’anno prossimo cadrà il 130mo anniversario dalla nascita del celebre sacerdote che interpretò l’esistenza con una sua “visione della vita e del posto che bisogna occupare nella vita”, con “un costante desiderio di trovare sintonia con gli altri”.
Domanda: Era mai stato in Argentina prima del 2005 sulle tracce di Don Patagonia?
Risposta: “Si, diversi anni fa. Sono stato dal 1990 nella Giunta della Regione Toscana. Nei primi anni avevo anche la delega all’emigrazione. Proprio in virtù di questo impegno mi sono recato due volte in Argentina per incontrare le comunità toscane a Buenos Aires e a La Plata”.
D. Quale spinta emotiva c’è stata per convincerla a intraprendere un viaggio così denso di semantica?
R.: “Ho deciso di intraprendere questo viaggio sulla spinta di un interesse che ho maturato durante il mio viaggio in Antartide. Leggendo un libro di Alberto Maria De Agostini, Don Patagonia, degli Anni Trenta si è aperto un varco nella mia mente che ancora non si chiude: la storia straordinaria di un uomo che si intrecciava con la mia curiosità di scoprire e avvicinare l’Argentina, un Paese che amo moltissimo. Soprattutto la Patagonia e la Terra del Fuoco”.
D. Cosa sapeva di questo prete così originale?
R.: “Nulla. Avevo sentito parlare nei miei viaggi in America del Sud di Don Patagonia ma non avevo associato quel nome ad Alberto Maria De Agostini. Quando mi sono messo sulle sue tracce si è aperto un mondo”.
D. Può essere ritenuto un prete di frontiera, espressione ante litteram della Teologia della Liberazione?
R.: “Penso proprio di sì. Nel mio libro 'Il Cacciatore di Ombre' parlo di altri preti missionari che hanno fatto la scelta della Teologia della Liberazione. De Agostini era un prete che è vissuto nei primi anni del Novecento. E’ stato un “rivoluzionario” soprattutto scegliendo di stare dalla parte degli Indios. Nel momento in cui si attuava un genocidio, egli ha denunciato coon forza i responsabili, in primo luogo il Governatore di Punta Arenas. Per questo ha subito anche un isolamento da parte dei suoi superiori a Torino”.
D. Che Argentina ha trovato la prima volta?
R.: “In tutti questi anni ho assistito a un profondo mutamento. La prima volta ho trovato un Paese in ginocchio. Oggi, fortunatamente, è un Paese vitale”.
D. E’ vero che è così popolare da dare il nome a ghiacciai, un parco ed è studiato a scuola?
R.: “Si, è molto popolare. Ha ridisegnato le mappe della Terra del Fuoco. Molte parti prima di lui avevano la dicitura 'Terra Incognita'. Oggi, grazie a lui, portano un nome e un segno preciso nella carta geografica. Ci lascia 40mila fotografie straordinarie, oltre 60 tra libri e pubblicazioni, ecc. Il Cile gli ha intitolato il più grande Parco a sud dello Stretto di Magellano. Addirittura una banconota da 10000 pesos. E’ inoltre studiato in tutte le scuole di Argentina e Cile”.
D. Cosa hanno detto di lui le persone incontrate e intervistate?
R. “Mi hanno rilasciato ampie testimonianze come si può dedurre leggendo 'Il Cacciatore di Ombre'. Tutti mi hanno parlato come di una persona gentile, timida e riservata. Si animava molto parlando dei luoghi che gli appartenevano e degli Indios. Tutti ricordano la profondità dei suoi occhi”.
D. Lei ha visto il documentario con immagini inedite degli Indios e i documenti ritrovati a Puerto Arenas oggi al Museo Glaviano? Quale Don Patagonia viene fuori?
R.: “Sì, ho visto il documentario e tutto il materiale nei Musei. Viene fuori una persona straordinaria, un grande esploratore e scienziato. Personalmente nel mio libro ho indagato l’uomo”.
D. Il suo libro è stato presentato anche a Pollone, in Piemonte, dove nacque e dove riposa nella tomba di famiglia, lui che 'forse avrebbe voluto riposare in quella spiaggia dello stretto dove, nei momenti sul suo abbandono, raccoglieva conchiglie': gli abitanti lo conoscono, sanno delle sue opere per gli Indios, ne sono orgogliosi?
R. “La presentazione del libro è stata un’esperienza straordinaria e bellissima. Era presente tutto il paese che ricorda bene il suo missionario esploratore”.
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