Edith Nesbit, Melisenda e 9 “storie da non credere”

Francesco Greco. E’ dell’editore romano Donzelli la proposta più intrigante per una deliziosa strenna natalizia da far trovare sotto l’albero alle persone cui si vuole bene. 9 favole scritte un secolo fa, all’apparenza per i bambini, tra palle di gomma indiana che parlano e incitano a saltare e convitti esclusivi per ereditiere referenziate nate da sovrani rispettabili, ma in cui gli adulti troverebbero spunti vividi, magari identificandosi in zii moralisti e vecchie zie acide, testimoni di un’epoca, quella marcata dal bigottismo paranoico della Regina Vittoria, ormai sul viale del tramonto, che ben si intravede fra le righe da pennellate sapide quanto divertenti.

   “Melisenda” (e altre storie da non credere), di Edith Nesbit, Donzelli editore, Roma 2012, pp. 244, € 25 (intrigante introduzione di Rita Valentino Merletti, 20 disegni originali di Lindsey Yankey, americana del Kansas che esordisce): è un classico del Novecento per la prima volta proposto al pubblico italiano che certamente apprezzerà. La prima cosa che si osserva è la proiezione della propria biografia nella prosa intrisa della vivacità e la forza del suo carattere, dell’ambiente quotidiano in cui si sviluppò la sua parabola, i bambini intorno, l’aria leggera intorno a Edith Nesbit. E tutti questi elementi danno vita a uno stile del tutto originale e “contaminato”, con improvvisi sarcasmi e strizzatine d’occhio al lettore che coinvolge nel procedere del plot narrativo. Lezioni di stile da far esclamare: chapeau! Anche perchè lei ha cambiato la semantica delle favole rimodulandola su format assolutamente originali e moderni. Relativizzando tanta narrativa contemporanea, boriosa, autoreferenziale, sterile, di genere.

   “Storie da non credere”, “storie improbabili” le definisce la stessa scrittrice british. E perciò capaci di catturare il lettore e tenerlo col fiato sospeso sino all’ultima riga, tra sovrani angosciati perché alle prese con strani uccelli che ridono troppo miniaturizzando i ministri del suo governo costretto a evadere gli affari di stato e una principessa magrissima assisa “su un cuscino di raso verde grande quanto un letto di piume” e Melisenda che “andava a dormire la sera con i capelli corti e si svegliava al mattino con metri, metri e metri di capelli dorati che fluttuavano dappertutto nella stanza…”.

   Ne aveva passate tante, povera Edith: e tuttavia la sua è la forza della donna che prende coscienza ed era già protagonista del Novecento europeo, in lotta per l’emancipazione e la parità di diritti. Nacque a Londra nel 1854, ultima di 5 figli, a 4 anni rimase orfana di padre. Fu svezzata da vecchi parenti e poi, cresciuta, fece il giro dei collegi in Francia, Germania, Spagna. Se le regalò una atout cosmopolita, probabilmente quel rigore la rese insofferente agli schemi, sviluppò la natura ribelle e anticonformista.

   Sposò a 21 anni, incinta, Hubert Bland, un ragazzo di quelli che si dicono “buon partito”. Ma presto la favola divenne incubo: non le lesinò nulla. Tradimenti, traversie economiche, persino malattie. Edith però sembrava inattaccabile: per lunghi periodi fu lei a portare il pane a casa, con lavori d’ogni genere, soprattutto nel campo artistico-letterario. Tutto ciò spiega la sua psicologia, e anche la personalità sfaccettata.

   La loro casa nella campagna del Kent era ambita dai migliori “cervelli” dell’epoca: passavano lunghi week-end Oscar Wilde e George Bernard Shaw, H. G. Wells e Gilbert K. Chesterton. Ideale continuazione con la sua formazione culturale, quando s’era appollaiata sulle spalle dei giganti: Shakespeare, Lewis Carroll, Perrault, ecc. Brodo di coltura di uno stile unico, onirico e al contempo materiale, evocativo, venato di poesia e sottile ironia, ma anche di un ecologismo ante-litteram: “Se dovesse morire o se lo rubassero – sospira la principessa sul suo cuscino di raso riferendosi al tucangallo – la Terra verde inaridirebbe”.

   Qua e là la la prosa è  cosparsa da guizzi sulfurei e manciate di vetriolo che irridono la cultura vittoriana. Nella fiaba d’apertura, appunto, “Il tucangallo” (Edith già immaginava le brutture dell’Ogm, gli azzardi dell’eugenetica) Matilda e Pridmore finiscono in uno strano paese dove le modiste vendono carne di porco e gli stagnini focacce, mentre il palazzo del re era “lindo e splendente come non sono i palazzi inglesi, per esempio St. James o Buckingham Palace”. Spuntano anche i luoghi comuni sugli irlandesi: lo zio Thomas non può che essere un pò “spilorcio” (come i dublinesi di Joyce?): “In tutta la vita solo una volta mi ha dato uno scellino ed è pure risultato falso…”. Ma risente anche delle suggestioni psicanalitiche: un bambino impertinente pensa di chiedere alla zia: “Quanti soldi hai?”. Pare il rimuginare di Zeno.

   Edith dà del “tu” al lettore scuotendolo dal lago dorato dell’infanzia e spingendolo a dirsi subito adulto, responsabilizzarsi rispetto alla vita: com’era stato per lei (morì nel 1924), personaggio modernissimo, da riscoprire, come scrittrice e protofemminista che si è autodeterminata in un tempo in cui il maschilismo si trasfigurava nella cupezza vittoriana. Figure solide, ricche, anticonformiste di cui nel XXI secolo si sente la mancanza.  

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