Quel che avrebbe fatto Cechov se avesse vissuto 6 mesi in più

Francesco Greco. Originale, intrigante l’espediente letterario. A pensarci, il sogno d’ogni uomo: una “proroga” al tempo che, come direbbe Emile A. Cioran, gli è “toccato in sorte”. Uno spazio temporale definito durante il quale scoprire un altro da sé, tentare altri approcci all’esistenza, osare vie diverse, dare agli eventi una modulazione oggettivata della quale si è i primi a stupirsi quasi appartenesse ad altri. Format, a ben vedere, universale, nel senso che cambierebbe la Storia. Dove sarebbe giunto Alessandro Magno con altri 180 giorni? “Petrolio” non sarebbe uguale se Pasolini avesse avuto tempo per l’editing, “Eyes Wide Shut” diverso se Kubrick non fosse morto d’improvviso e forse l’opera omnia di Hemingway più ricca se la mattina del 2 luglio ‘61 non si fosse messo ad armeggiare coi fucili nella rastrelliera.

   Lo scrittore portoghese Josè Sasportes “concede” quasi 7 mesi al grande drammaturgo russo Anton Cechov, per scoprire un uomo diverso dall’iconografia “buonista” ufficiale: pieno di vita, di idee, di complicità, affettuoso con la moglie Olga, che pure vive lontano, e con la sorella Masa che raccoglie le confidenze più intime. Ed è proprio questo, o anche questo il “messaggio” del romanzo strutturato sotto forma di diario: la malattia (nel caso dell’autore di “Zio Vania”, “Tre sorelle” e del “Giardino dei ciliegi”) la tubercolosi, svelerebbe un’altra persona ove fosse possibile avere una tregua, ponendo l’uomo in un luogo neutro da dove osserva tutto con lacerante chiarezza e sapida, lieve ironia, adottando l’archetipo dell’Urbe antica come filosofia di vita, quel “carpe diem” che Lorenzo il Magnifico perfezionerà in “Quant’è bella giovinezza…” sigillando il Medioevo.

   “Giorni contati”, di Josè Sasportes, Editore Voland, Roma (Collana “Intrecci”), pp. 112, € 12 (pregnante traduzione di Daniele Petruccioli, chine di Josè Martins), conquista già nell’incipit. Ecco il grande scrittore russo sul letto di morte a Badenweiler, località termale della Germania (non lontano da Friburgo). E’ il 2 luglio 1904 e Cechov è gravemente malato di tubercolosi. Al capezzale i medici sono a consulto, gli riempiono una coppa di champagne e bevono insieme come se fosse l’ultimo desiderio di un malato segnato o un’estrema unzione laica. Lo osservano, ma non accade quel che si aspettano. “Il volto ritrovò il suo colore e lui cominciò a chiacchierare tranquillo…”. Gliene riempiono un’altra. Niente. Alla terza capiscono che sta accadendo qualcosa d’insospettato: suggestione o potenza di un vino “carico della misteriosa vitalità della Foresta Nera”? Insomma, lo scrittore palesa un miglioramento che se non prelude alla guarigione sospende almeno l’esecutività inesorabile del fato.

   In realtà Cechov avvertì a 24 anni i primi sintomi della malattia, e ci convisse per altri 20, sino alla fine il 2 luglio 1904, quando ha solo 44 anni. La madre campò 15 anni più di lui, la sorella morì nel 1957 e la moglie nel 1959 (gli scriverà pur sapendo la fine della storia). La sensazione di sopravvivere a se stessi, di dare le carte al destino, è curiosa e spiazzante. Ma dopo la sorpresa pone dinanzi a nuove responsabilità, quesiti inaspettati. Dando al romanzo forma di diario, Sasportes ne approfitta per lacerare l’immagine di scrittore di corte che una critica interessata ha costruito. Pennella un Cechov poco “ufficiale”, tormentato, “natura ribelle” che stempera il suo stato d’animo nell’ironia (nei primi racconti soprattutto). Lo incasella in un contesto storico inquieto: la Russia è in guerra col Giappone, le notizie dal fronte non sono confortanti e la tubercolosi dello scrittore contagia un’epoca giunta al crepuscolo. I bolscevichi sono dietro l’angolo, la Corazzata Potemkin non ferma l’utopia marxista-leninista che mira al Palazzo d’Inverno. “Si parlava di fine dell’Impero… gli dispiaceva appartenere a un paese in agonia”. Annusa il crollo in progress: “…i contadini avevano smesso di rispettarla (la terra, ndr) per colpa di un ordine sociale che li rendeva schiavi dei campi”.

   Un Cechov umano, molto umano: che gode della chance concessa, scrive alla moglie rimasta a Mosca a recitare in teatro “ma senza alimentare speranze”, geloso degli altri attori, “teneri insulti” e parla di una ritrovata vitalità. “Si sentiva un’altra persona, aperto ad avventure che un tempo ricusava”. Confida alla sorella il rinato ardore sessuale tenuto a bada da un’infermiera tedesca, Emilie, “bellezza robusta”; descrive il sogno: il disperato tentativo di salvare libri senza dorso né titolo dal fuoco di un’altra Alessandria.    

   Un libro sorprendente, nella tradizione Voland, che più dell’exprit francese (da Balzàc a Hugo, passando per Gide e Camus), ha capito che sono i grandi russi ad avere la password che decodifica il tempo, l’uomo, l’Universo. Josè Sasportes è nato a Lisbona nel 1937, è scrittore e storico della danza. E’ stato a lungo in Italia dove, fra l’altro, ha fondato la rivista “La danza italiana”. Nel 2000 ha ricoperto la carica di Ministro della Cultura del suo Paese. Il format ideato nel 2004 (“E poi?”) ha prodotto nel 2009 “A Vinganca de Marcolina ou o ultimo duelo de Casanova” e nel 2011 “Os Novos Esoectros”. Martins è nato nel 1940, pure a Lisbona, ma è stato a lungo a Parigi. E’ uno dei pittori più importanti oggi in Portogallo. “Giorni contati” (titolo originale “Os dias contados”) è tradotto col sostegno del Ministério da Cultura e della Direccao General do Livro e das Bibliotecas.

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