Francesco Greco. Dieci anni fa, il 24 gennaio 2003, moriva Gianni Agnelli, il “monarca” per il jet-set, l’Avvocato per tutti gli altri. Una “famiglia reale “che ha sovrapposto le sue vicissitudini pubbliche e private, le sue “visioni”, le scelte industriali alla storia d’Italia. E’ un lasso di tempo abbastanza congruo per stemperare passioni, smussare spigoli, scoprire background senza irritare più di tanto sensibilità, toccare nervi scoperti. E’ scontato che noi italiani come storici siamo i meno credibili, stretti fra due “chiese”: quella cattolica e quella comunista. Per cui ogni ricostruzione è viziata appunto da tabù e suggestioni, risente di militanze, talvolta ossessioni. Non è un caso che gli storici più seri (eccezion fatta per Montanelli e qualcun altro) della nostra storia patria sono stranieri (basti pensare a Denis Mack Smith). Persino Alessandro Magno sperimentò sulla propria parabola politica la stravaganza di storici al suo seguito e contemporanei che a tutt'oggi non ci hanno ancora dato una voce univoca sulla sua fine improvvisa.
Gigi Moncalvo proviene dal giornalismo, che come scuola è forse la migliore per avvicinarsi con una qualche praticità e credibilità alle biografie di uomini eccellenti, barocchi, prismatici. Se la “scuola” anglosassone fa parlare le carte, i fatti reali più che le elucubrazioni soggettive quanto relative, come storico Moncalvo ha adottato tali format rigorosi e pregni per accostarsi a montagne di materiali sapendo quali hanno importanza e sostanza per il suo lavoro e quali invece frutto di leggende, dicerie, vaghezze prive di pathos. E dopo le biografie di Berlusconi e Di Pietro e “I Lupi & gli Agnelli” (Vallecchi, 2009), sui background della cospicua eredità, ecco, a celebrare l’anniversario, “Agnelli Segreti” (Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima “famiglia reale” italiana) Vallecchi, Firenze 2012, pp. 528, € 19 (Collana “I Saggi”).
Dieci anni dunque in cui il mito-Agnelli è stato sdoganato, sottratto al silenzio assordante e alla “naturale” autocensura dovuta alla soggezione ma anche alla paura che la sua figura suscita e che per molto tempo ha spazzato sotto al tappeto la polvere della dinasty, come se per certi cortigiani fosse la password giusta per rapportarsi a un personaggio che, ripetiamolo, intreccia la sua parabola alla storia patria sospesa fra due secoli. Senza accorgersi di aver derubricando la Fiat a fabbrica di provincia, non a colosso mondiale dell’auto e lo stesso Avvocato non a protagonista ma a comparsa su un teatro di provincia. Un format peraltro giù in uso con Agnelli vivente: basti ricordare il pudore mediatico attorno al suicidio del figlio Edoardo e dopo col mediocre pamphlet scritto attorno alla disputa sul patrimonio segreto (Agnelli si è rivelato un italiano medio che nascondeva nei paradisi fiscali l’enorme ricchezza) della figlia Margherita contro chi forse sapeva: Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Siegfried Maron.
In 23 capitoli rapidi e sapidi, incalzanti, con uno stile piano, puntellandosi di continuo a carte, documenti, tracce oggettive, Moncalvo ricostruisce fino a farcela respirare un’epoca che ormai ci siamo lasciati alle spalle, cesura storica e anche culturale cui ha dato un notevole contributo l’attuale amministratore Fiat Sergio Marchionne con le sue politiche globalizzanti.
Lo storico si rivela efficace non solo nella ricostruzione di un puzzle storico e di contesti ormai destrutturati, ma anche, si direbbe quasi soprattutto nell’abbozzo psicologico dei personaggi: due su tutti, lo scrittore Curzio Malaparte, direttore della “Stampa” e la sua amante Virginia, “bella, fragile, praticamente squattrinata, amava la vita e l’allegria, era del tutto ineducata…”, rimasta vedova a 35 anni di Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni, che davanti alla determinazione della signora di voler sposare in segreto un uomo bellissimo cerca di toglierle i 7 figli (tra cui l’Avvocato) e poi si vendica umiliandola nel testamento dopo aver cacciato Malaparte dalla “Stampa” con una sontuosa buonuscita.
Altro passaggio intenso: la breve parabola di Edoardo, il figlio morto suicida, che corre su un format neorealista grazie anche alle 37 lettere inedite che lo storico è riuscito a recuperare nel suo pc. Comincia ad Assisi nel 1986 con un’intervista al “Manifesto” che provoca un “cataclisma” e si chiude con la nomina di John Elkann a suo successore da parte di Gianni Agnelli. Personaggio tormentato, complesso, dostoevskijano, con un’idea soggettiva del mondo, il lavoro, le relazioni sociali. Cesare Lanza lo paragona ad Hanno Buddenbrook, “intelligentissimo, di sensibilità esasperata…”. Scriveva per dire “ci sono anch’io” suggerisce Moncalvo dandogli dignità. Di Montezemolo alla Ferrari: “Papà mi disse che di Formula 1 Luca non capisce niente”. E dopo che “rossa” (guidata dall’austriaco Gerhard Berger) rompe due motori alle prove del Gran Premio di Barcellona (28 febbraio 1994), scrive a Romiti: “…mettete Piero Ferrari alla presidenza, il resto vien da sè”. Se solo lo avessero ascoltato, la storia dell’impero Fiat, della dinasty, del management di Corso Marconi e tutti i personaggi che gravitavano in quel cono d’ombra e che da dieci anni sgomitano per darsi visibilità, anche come esegeti del pensiero di Gianni Agnelli, forse sarebbe stata diversa.
Un libro utile per capire, al di là della password che si sceglie per entrarci, la storia d’Italia, il capitalismo delle famiglie nell’altro secolo, ma nel cui sottosuolo scorre anche una commedia umana i cui chiaroscuri questo bellissimo saggio se non irriverente, certamente non embedded, aiuta a illuminare.
Gigi Moncalvo proviene dal giornalismo, che come scuola è forse la migliore per avvicinarsi con una qualche praticità e credibilità alle biografie di uomini eccellenti, barocchi, prismatici. Se la “scuola” anglosassone fa parlare le carte, i fatti reali più che le elucubrazioni soggettive quanto relative, come storico Moncalvo ha adottato tali format rigorosi e pregni per accostarsi a montagne di materiali sapendo quali hanno importanza e sostanza per il suo lavoro e quali invece frutto di leggende, dicerie, vaghezze prive di pathos. E dopo le biografie di Berlusconi e Di Pietro e “I Lupi & gli Agnelli” (Vallecchi, 2009), sui background della cospicua eredità, ecco, a celebrare l’anniversario, “Agnelli Segreti” (Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima “famiglia reale” italiana) Vallecchi, Firenze 2012, pp. 528, € 19 (Collana “I Saggi”).
Dieci anni dunque in cui il mito-Agnelli è stato sdoganato, sottratto al silenzio assordante e alla “naturale” autocensura dovuta alla soggezione ma anche alla paura che la sua figura suscita e che per molto tempo ha spazzato sotto al tappeto la polvere della dinasty, come se per certi cortigiani fosse la password giusta per rapportarsi a un personaggio che, ripetiamolo, intreccia la sua parabola alla storia patria sospesa fra due secoli. Senza accorgersi di aver derubricando la Fiat a fabbrica di provincia, non a colosso mondiale dell’auto e lo stesso Avvocato non a protagonista ma a comparsa su un teatro di provincia. Un format peraltro giù in uso con Agnelli vivente: basti ricordare il pudore mediatico attorno al suicidio del figlio Edoardo e dopo col mediocre pamphlet scritto attorno alla disputa sul patrimonio segreto (Agnelli si è rivelato un italiano medio che nascondeva nei paradisi fiscali l’enorme ricchezza) della figlia Margherita contro chi forse sapeva: Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Siegfried Maron.
In 23 capitoli rapidi e sapidi, incalzanti, con uno stile piano, puntellandosi di continuo a carte, documenti, tracce oggettive, Moncalvo ricostruisce fino a farcela respirare un’epoca che ormai ci siamo lasciati alle spalle, cesura storica e anche culturale cui ha dato un notevole contributo l’attuale amministratore Fiat Sergio Marchionne con le sue politiche globalizzanti.
Lo storico si rivela efficace non solo nella ricostruzione di un puzzle storico e di contesti ormai destrutturati, ma anche, si direbbe quasi soprattutto nell’abbozzo psicologico dei personaggi: due su tutti, lo scrittore Curzio Malaparte, direttore della “Stampa” e la sua amante Virginia, “bella, fragile, praticamente squattrinata, amava la vita e l’allegria, era del tutto ineducata…”, rimasta vedova a 35 anni di Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni, che davanti alla determinazione della signora di voler sposare in segreto un uomo bellissimo cerca di toglierle i 7 figli (tra cui l’Avvocato) e poi si vendica umiliandola nel testamento dopo aver cacciato Malaparte dalla “Stampa” con una sontuosa buonuscita.
Altro passaggio intenso: la breve parabola di Edoardo, il figlio morto suicida, che corre su un format neorealista grazie anche alle 37 lettere inedite che lo storico è riuscito a recuperare nel suo pc. Comincia ad Assisi nel 1986 con un’intervista al “Manifesto” che provoca un “cataclisma” e si chiude con la nomina di John Elkann a suo successore da parte di Gianni Agnelli. Personaggio tormentato, complesso, dostoevskijano, con un’idea soggettiva del mondo, il lavoro, le relazioni sociali. Cesare Lanza lo paragona ad Hanno Buddenbrook, “intelligentissimo, di sensibilità esasperata…”. Scriveva per dire “ci sono anch’io” suggerisce Moncalvo dandogli dignità. Di Montezemolo alla Ferrari: “Papà mi disse che di Formula 1 Luca non capisce niente”. E dopo che “rossa” (guidata dall’austriaco Gerhard Berger) rompe due motori alle prove del Gran Premio di Barcellona (28 febbraio 1994), scrive a Romiti: “…mettete Piero Ferrari alla presidenza, il resto vien da sè”. Se solo lo avessero ascoltato, la storia dell’impero Fiat, della dinasty, del management di Corso Marconi e tutti i personaggi che gravitavano in quel cono d’ombra e che da dieci anni sgomitano per darsi visibilità, anche come esegeti del pensiero di Gianni Agnelli, forse sarebbe stata diversa.
Un libro utile per capire, al di là della password che si sceglie per entrarci, la storia d’Italia, il capitalismo delle famiglie nell’altro secolo, ma nel cui sottosuolo scorre anche una commedia umana i cui chiaroscuri questo bellissimo saggio se non irriverente, certamente non embedded, aiuta a illuminare.