La “prigione” di Contrada? Il sonno della ragione

Francesco Greco. Se il sonno della ragione genera mostri e shakespearianamente c’è del metodo nella follia, l’approccio razionale alla dolorosa parabola di Bruno Contrada non decodifica la sciarada. Anzi, la fa più folle e inaccettabile. Forse ci dev’essere una chiave di lettura antropologica, una password metafisica per spiegare l’orrore e l’accanimento (per ospitarlo fu persino riaperto il vecchio carcere militare di Palermo: fu il solo inquilino), una scansione filosofica e magari psicanalitica che introduce alle pagine più cupe e volgari della storia patria, al suo limaccioso, inconfessato dna.
 
A un certo punto la sovraesposizione giudiziaria e mediatica di cui fu involontario protagonista sconfina nella commedia umana, nel sottosuolo dostoevskjano, fra le pieghe oscure e spesso rimosse di un vissuto etico e politico cui pure, immondo puzzle, non manca nulla a nefandezze, reticenze, devianze dall’alveo costituzionale. Ognuno riempia queste parole con i topoi della sua formazione culturale e politica, e se può, con un pò di pathos etico, pietas cristiana per chi è credente, garantismo per chi è espresso da una cultura illuminista. Dall’assoluzione di Andreotti alle prescrizioni di 'Zu Silviu', passando per Previti, Dell’Utri, Ciancimino, alla persecuzione di chi, nonostante tutto, ancora si considera, con tenacia cosparsa di tenerezza, un fedele servitore di uno Stato che in certi passaggi storici da culla del diritto si fa bara della legalità.    
 
Uno Stato che dubita dei suoi uomini migliori, talvolta eroi e crede a criminali con 30 omicidi nel cv (Gaspare Mutolo, che accusa Contrada di essere asservito a Rosario Riccobono, boss di Partanna Mondello, ovviamente deceduto) è marxianamente estinto, morto. “La mia prigione” (Storia vera di un poliziotto a Palermo), di Bruno Contrada, con Letizia Leviti, Editore Marsilio, Venezia 2012 (Collana “I nodi”), pp. 270. € 16.50, racconta la storia di un uomo, un poliziotto con la “p” maiuscola per passione e acutezza di sguardo e di analisi, infamato dalla macchina del fango accesa dai “collaboratori di giustizia”, alcuni dei quali da lui inquisiti o “attenzionati”, che in un rapporto del 13 maggio 1982 (inedito proposto per la prima volta in questo libro che si spera sia letto dall’Italia torpida e malmostosa), scriveva: “La potenza della organizzazione mafiosa di questa città non è data soltanto dal numero e dalla qualità degli uomini, criminali ad alto livello, che di essa fanno parte attiva, sui mezzi economici ingentissimi di cui dispone, dai legami e patti di mutua assistenza con altri gruppi criminali italiani e stranieri, ma principalmente dal fatto che essa è profondamente inserita e ramificata, quasi connaturata nel tessuto sociale cittadino di cui è parte integrante con la disponibilità peraltro di una vastissima, indefinita e indefinibile zona grigia”.
 
Un uomo che dice parole come queste, con una carriera in ascesa, può essere sospettato di tradire lo Stato? 150 testimoni sfilano in tribunale a dire chi è: non sono “attendibili”. Mistero buffo. Tutto avviene in un contesto in cui lo Stato s’è imbrigliato, ai livelli più alti, in un’accusa pesantissima di traffici oscuri con l’onorata società, trattative di cui poco si sa e tutto, fellinianamente, s’immagina, e che magari dettate da ispida contingenza, finiscono col legittimare (anche culturalmente) la mafia e dintorni.
 
A volte il flusso della memoria s’interrompe bruscamente perché ricordare è doloroso, svelle l’aspro vissuto che si vorrebbe rimuovere per “stemperare quell’infinito senso d’indignazione e di impotenza”. Però poi s’impone senza pudori né chiaroscuri, come dev’essere. La Leviti (Pontremoli 1971), è una cronista di razza, sa porre le domande giuste e Contrada ha una memoria fredda, implacabile quanto analitica. I “si dice” diventano certezze granitiche, i ricordi sbiaditi di canaglie passaggi dell’Ecclesiaste: il secondo flusso di pentiti ripete ciò che hanno detto i primi, la terza infornata i secondi in un gioco di echi scagliati all’infinito.    Così un’intelligenza brillante è sottratta allo Stato e appaltata alla mafia: che si vendica di un poliziotto vero, tosto, che li combatteva: ma la giustizia non se n’avvede.
 
La vicenda umana di Contrada è consentita anche dall’atomizzazione della percezione dell’autorità, la fine di ogni potere, il relativismo sparso copioso, infida gramigna, su ogni forma di autorità. Edipo è ucciso e resta sull’agorà alla mercé dei corvi, la barbarie del quotidiano eccita il peggio dell’io, surroga ogni dialettica, lo Stato s’infila in un blob viscido e oscuro in cui siamo tuttora immersi senza alcuna visione del futuro.
 
Agli occhi dell’opinione pubblica prosegue la demonizzazione imposta da riflessi pavloviani. Contrada “colluso”, quinta colonna di Riina, sospettato persino per la strage di Via D’Amelio (Borsellino). Si dà enfasi al suo rapporto dialettico con Falcone e Borsellino, com’è fra uomini con la “u” maiuscola: magari tesse la sudicia tela anche chi li lasciò soli favorendo la fine e oggi s’appropria della memoria creando un clima adatto affinché anche chi ha raccolto il loro testimone (Antonino Ingroia) debba essere mandato in Guatemala senza che l’opinionismo dop e il corsivismo dello spettacolo meni un po’ di scandalo, almeno per l’ammuina borbonica.
 
Gli dèi dispettosi voltano le spalle a Contrada la vigilia di Natale del 1992. Alle 7 e 10 bussano violentemente alla porta: “Aprite, polizia”. D’istinto pensa ai suoi uomini. Non è così: col top dello show di cui questa civiltà ha saputo fare un orrido format, un must, gli consegnano l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: un classico come il professionismo dell’antimafia (Sciascia) e i pentiti eletti oracoli di Delfi della nostra epoca. “Dottor Contrada, ci segua” (ma chi lo arresta non sa dove portarlo… La radio gracchia ordini contraddittori). E la parola di un “servitore” (che nel frattempo ha anche dato un figlio alla Polizia) è cartastraccia.
 
Lo dice con una smorfia amara sulla cover: “Chi combatte la mafia rischia il fango”. Ma sa bene anche che, citando Sciascia ripreso da Ayala “chi ha paura muore ogni giorno”. E aggiunge: “E’ normale che in queste condizioni escano fuori gli sciacalli, i corvi, le iene”. Ne è colma la storia patria, ma si spazza la polvere sotto al tappeto con furore iconoclasta. Da moglie per bene, Adriana Contrada quasi implora: “Il mio auspicio è che questo libro possa far nascere, se non rimorsi o ravvedimenti, almeno qualche dubbio…”. Sarebbe tanto in un Paese dalla memoria corta, formattata dalla tv spazzatura, dove si rimuove selvaggiamente tutto e spesso i giusti debbono difendersi dalla giustizia che “al di là di ogni ragionevole dubbio” non ammette i suoi errori, ma i suoi uomini, eccitati dai mèntori giustizialisti sparsi nei media e dalle tricotèuse dei salotti tv, non pagano pegno.
   Proponiamo Contrada a senatore a vita nel Parlamento in progress. Se l’istituzione ha ancora un senso, uomini come lui non possono che onorarla. Perché di ridargli onore e dignità alla fin fine si tratta. Anche per rimuovere un pesante senso di colpa che, come società civile, c’opprime il cuore da quel Natale amaro..

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