Francesco Greco. Quei “volti di carta” emergono quieti dal Novecento, da un passato perduto, ma non nei valori che invece sono immortali. Arrivano a noi, nell’epoca dell’hashtag, con dolcezza, ma anche la grande forza dialettica del loro vissuto. E ci raccontano storie che oggi che la trasmissione della memoria è soffocata dalla perfida gramigna della tv-spazzatura e dai suoi squallidi mèntori, mestatori di un feticismo che si trasfigura in patologia della contemporaneità. “Guai se li dimenticassimo, se non attribuissimo a queste storie la giusta considerazione: a quelle donne dobbiamo tutto…”, ammonisce il regista Paolo Rausa (nella foto di Tiziana Montinari): è nato a Poggiardo (Lecce) ma vive a Milano.
Un 8 marzo modulato sul filo della memoria quello che ha avuto luogo a Poggiardo (Palazzo della Cultura) davanti a un pubblico in prevalenza femminile, coinvolto, emozionato. La compagnia teatrale “In Scena!” ha riproposto “Volti delle donne di un tempo”, liberamente tratto da “Volti di carta” (Storie di donne del Salento che fu), dalla scrittrice salentina (nata a Copertino, nel Leccese, vive in Calabria, ha casa a Roma) Raffaella Verdesca, che presenzia sempre alle rappresentazioni del suo testo in cui è riuscita a catturare l’anima segreta di un tempo….
La sua gallery di donna è un “caso” editoriale: grazie anche alle presentazioni qua e là il libro, pur edito da una piccola casa editrice, la “Albatros”, vende senza tregua. E a ogni replica, le emozioni si rinnovano, anzi, si moltiplicano, come sempre accade quando c’è sintonia fra un testo e chi lo assimila e lo propone, all’insegna della poesia con la “p” maiuscola. La narratrice irrompe in scena, apra la sua enorme valigia colma di foto in bianco e nero: il vento le sparge nell’aria, cadono qua e là… E le storie delle sei donne-archetipo prendono vita. Vincenzina è quinta di dodici figli, la chiamano “la Moretta”, ha la pelle bruna e i capelli scuri “come una spremuta di uva nera”. “La prima cosa che ho imparato nella vita è di crescere alla svelta…”. Infatti la madre la chiama alle 3 perché deve andare a lavorare alla “frabbica”(così nel “secolo breve” chiamavano i magazzini dove si lavorava il tabacco selezionando le foglie: Perustiza, Erzegovina, Xanti-Iaca…
Portata dalle note grike intrise di nostalgia dovuta alla lontananza di “Encardia andra mou paei” (Franco Corlianò), arriva Nunziata: è una “vedova bianca”, è rimasta sola e sta scrivendo una lettera che affiderà alla rondinella al marito che vive lontano, alla “Merica”, dove lavora in una fabbrica di ferro: “Ci siamo sposati in fretta – confida con qualche errore di grammatica alla carta – non abbiamo avuto neanche il tempo di conoscerci meglio, intendo anche carnale… Mi ammazzo di fatica per portare avanti il forno e per badare a tua madre… Marito mio vieni presto che non mi fito più resistere lontana di te”.
Teresina invece lavorava nei campi la terra del barone don Ignazio, che un giorno l’ha violentata come un animale e ora vorrebbe il bambino che è nato. La lusinga: “Se mi dai il bamnbino, non ti farò mancare nulla, e neanche alla tua famiglia. E poi ti troverò qualcuno che sarà disposto a sposarti!”. Ma lei, donna fiera e orgogliosa, si accaserà con Marcello, vedovo (“Serafina se l’è portata via una polmonite fulminante”) con due bambini piccoli, reduce dalla guerra “brutta storia!”.
Immacolata è una “fanciulla semplice e curiosa” che vive davanti al mare di Nardò, quando un giorno vede arrivare camion carichi di profughi ebrei. La gente accoglie gli stranieri con “malumore e diffidenza”. Fra di loro c’è Efrem: “Bello il mare… Questa terra, dove tutto luccica di un bianco splendente, è benedetta dal Signore, è Barakà…”. Lui le fa conoscere la cucina yddish (dall’hummus, antipasto con salse al sesamo, alla melanzana e ai ceci, all’harrosset, impasto di fichi, melograno, mele, datteri, noci e vino rosso), lei vermicelli col baccalà, rape e fichi secchi con le mandorle). “Credo che tutte le religioni del mondo nascono dall’amore”, filosofeggia lei, e lui, innamorato: “Quando l’uomo pensa, Dio sorride”. Si sposarono vicino al mare, che mandava il suo augurio: “Shalom! Pace!”.
E poi la storia di Uccia Capirizza, la mammana (levatrice) che un giorno d’inverno aiuta una ragazza a partorire sotto un ulivo, va in paese a chiedere aiuto, torna e la puerpera non c’è più: così diventa mamma a 50 anni chiamando Futura “la creatura che il destino mi aveva fatto incontrare”. Infine Caterina, vedova “bella e altera” (“il suo volto non era sfiorito con gli anni e il corpo era ancora vigoroso… ma il cuore era addolorato per la perdita del marito” Vincenzo, a 56 anni: diagnosi sbagliata, malasanità). Tutti i maschi del paese “sguardi pieni di desideri”, ma lei cresce da sola quattro figli facendo la sarta giorno e notte: “Ora che i miei figli si sono affermati nella società, posso dire di essere orgogliosa di quello che ho fatto e spero che anche loro lo siano di me… una donna e madre che ha lottato per la sua dignità”.
La chiave di lettura del testo e dello spettacolo è quindi multiforme: storica, antropologica, sociale, ecc. E’ anche qui la ragione del successo con cui viene accolto: prossima tappa della tournèe ad aprile a Lecce. Recitano Rosaria Pasca, Maria Orsi, Florinda Caroppo, Ninetto Cazzatello, Norina Stincone, Francesco Greco, Cinzia Carluccio, Tiziana Montinari, Michele Bovino, Lucia Minutello che con pasquale Quaranta (P40) cura canzoni e musiche. Un 8 marzo da ricordare, a futura memoria.