di Luigi Bramato. Ieri mattina è apparso sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno” un articolo a firma di Cristiana Cimmino. Si intitola “La paura dell’altro” e trae spunto da un episodio di intolleranza verificatosi qualche giorno fa nel capoluogo pugliese ai danni di due giovani donne. L’accaduto, come precisa la giornalista, non costituisce di per sé materia di reato (pare che un ragazzo in motorino nel vederle passeggiare per mano abbia detto: “Ma cos’è, il Gay Pride?”), ma è il segnale, l’ennesimo, di una diffusa e generalizzata intolleranza nei confronti del “diverso”, sia esso immigrato che omosessuale, che lede, oltre all’onorabilità delle persone offese, il buon nome della nostra città.
Terminato l’articolo (corredato da una bella intervista all’antropologa Anna Maria Rivera), la mia attenzione si è soffermata a lungo sull’interrogativo posto ai lettori dalla Cimmino (“Bari è diventata una città intollerante?”) ed è stato allora che ho intrapreso una piccola ricerca di archivio, tra i ritagli di giornale accumulati in 10 anni di attività di cronista, per cercare, in un modo o nell’altro, una risposta al quesito. Come ricordavo, a parte qualche caso episodico e circoscritto, nulla è risultato circa una presunta escalation di intolleranza per motivi di sesso, di religione o di etnia.
Ma, al contrario, la sola forma di intolleranza che ho riscontrato è stata quella riconducibile ai nostri comportamenti, generalizzati e diffusi, che costituiscono in termini di maleducazione, prepotenza e inciviltà l’origine non della intolleranza di genere ma della intolleranza tout court nei confronti del vivere civile, in cui rientra anche la convivenza con l’immigrato, l’omosessuale e via discorrendo. È questa, a mio avviso, la vera insofferenza di cui la nostra città è vittima e che ci rende aberranti agli occhi degli altri (su tutti, ricordo il caso dell’attrice Irene Papas che, dopo essere stata derubata nella zona del porto, giurò ai presenti che mai più avrebbe messo piede a Bari).
Dunque, ben vengano gli appelli contro ogni forma di xenofobia e razzismo. Ma non dimentichiamo mai una cosa: il rispetto per l’altro è una prerogativa delle comunità più civili e gentili. Bari, anche se fra le città più “felici” d’Italia (come ha testimoniato ultimamente il blog ‘Voices on the blog’), non lo è mai abbastanza. Ricominciano da qui.
Terminato l’articolo (corredato da una bella intervista all’antropologa Anna Maria Rivera), la mia attenzione si è soffermata a lungo sull’interrogativo posto ai lettori dalla Cimmino (“Bari è diventata una città intollerante?”) ed è stato allora che ho intrapreso una piccola ricerca di archivio, tra i ritagli di giornale accumulati in 10 anni di attività di cronista, per cercare, in un modo o nell’altro, una risposta al quesito. Come ricordavo, a parte qualche caso episodico e circoscritto, nulla è risultato circa una presunta escalation di intolleranza per motivi di sesso, di religione o di etnia.
Ma, al contrario, la sola forma di intolleranza che ho riscontrato è stata quella riconducibile ai nostri comportamenti, generalizzati e diffusi, che costituiscono in termini di maleducazione, prepotenza e inciviltà l’origine non della intolleranza di genere ma della intolleranza tout court nei confronti del vivere civile, in cui rientra anche la convivenza con l’immigrato, l’omosessuale e via discorrendo. È questa, a mio avviso, la vera insofferenza di cui la nostra città è vittima e che ci rende aberranti agli occhi degli altri (su tutti, ricordo il caso dell’attrice Irene Papas che, dopo essere stata derubata nella zona del porto, giurò ai presenti che mai più avrebbe messo piede a Bari).
Dunque, ben vengano gli appelli contro ogni forma di xenofobia e razzismo. Ma non dimentichiamo mai una cosa: il rispetto per l’altro è una prerogativa delle comunità più civili e gentili. Bari, anche se fra le città più “felici” d’Italia (come ha testimoniato ultimamente il blog ‘Voices on the blog’), non lo è mai abbastanza. Ricominciano da qui.