di Nicola Ricchitelli.
«Ho realizzato il piano regolatore di Ravenna del 1973 sotto la guida di grandi architetti. Poi ho deciso di laurearmi e avevo la carriera aperta… sennonché è subentrata una crisi ontologica…»: questo il racconto di Ivano Marescotti in questi giorni in onda sulle reti Rai nell’ottava serie di “Un Medico in famiglia”. Per l'attore «entrare come personaggio fisso in una fiction di grande tradizione come "un medico in famiglia" è motivo di grande soddisfazione. Naturalmente faccio il cattivo e molti mi chiedono come mai sempre cattivo…», ma non vi anticipiamo nulla e vi lasciamo alla chiacchierata avuto con Ivano ospite quest’oggi della rubrica “La Voce Grossa di…”.
D: Ivano, in questo ultimo periodo ti vediamo protagonista nell’ottava serie di “Un Medico in famiglia”. Cosa ci puoi raccontare di questa esperienza in un contesto così collaudato come quello di “Casa Martini”?
R: «Entrare come personaggio fisso in una fiction di grande tradizione come "un medico in famiglia" è motivo di grande soddisfazione. Naturalmente faccio il cattivo e molti mi chiedono come mai sempre cattivo… io rispondo che invece mi piace assai, per un attore è molto divertente. Un personaggio più lontano è dalla propria personalità e più è attraente, soddisfacente. E poi senza il cattivo le storie non esistono».
D: Prima di fare l’attore hai lavorato per ben dieci anni nell’ufficio edilizia della provincia di Ravenna, tra l’altro progettavi di diventare architetto. Cosa sarebbe stata la tua vita se fossi stato un architetto anziché un attore?
R: «Era il Comune di Ravenna e non la Provincia. Ho realizzato il piano regolatore di Ravenna del 1973 sotto la guida di grandi architetti. Poi ho deciso di laurearmi e avevo la carriera aperta… senonché è subentrata una crisi ontologica… ho cambiato Università iscrivendomi al DAMS di Bologna anche lì altri esami poi, finalmente mi sono licenziato e ho deciso di fare l’attore. Avevo 35 anni… Non è dunque che non sappia cosa vuol dire fare l’architetto, metà della mia vita l’ho vissuta lì. Ora, dopo altri 35 anni, so che significa anche fare l’attore… nei prossimi 35 non saprei…».
D: Quanto coraggio ci vuole nel lasciare il così detto “posto fisso” – anno 1981 – per inseguire le proprie aspirazioni di attore?
R: «Non avevo alcuna ispirazione di fare l’attore. È stato un caso (attore per caso, sì). Un amico mi chiese di sostituirlo in uno spettacolo per bambini e io, per fargli un favore, accettai pensando che mi avrebbero cacciato a pedate dopo i primi 10 minuti. Andai bene invece e allora ci feci un pensierino».
D: Il teatro ricopre uno spazio molto importante nella tua carriera. Cosa vuole dire per te fare teatro e quali le emozioni che esso suscita in te?
R: «Erano 10 anni che non accettavo proposte di teatro come scritturato. Non amo le tournée e le troppe repliche. Dopo 20 repliche lo spettacolo l’ho vissuto e analizzato, interpretato e sofferto. Poi diventa Replica, infatti. Ho invece incrementato molto i miei monologhi e recital improvvisati e con letture di Raffaello Baldini, il mio autore e poeta amato. Quest’anno infatti, dopo 10 anni, ho accettato di interpretare come scritturato di Nuova Scena i Bologna, il monologo di Baldini: “la Fondazione” (Einaudi) con la quale ho debuttato all’Arena del Sole di Bologna e porterò in tournée nella stagione prossima. Baldini me lo consegno prima di morire e mi disse “fanno ciò che vuoi” riempiendomi di orgoglio e commozione e io non desideravo altro che metterlo in scena».
D: Nel corso della tua carriera hai avuto modo di lavorare con grandi registi del calibro di Pupi Avati, Sandro Baldoni, Marco Risi, Roberto Benigni, Anthony Minghella, Ridley Scott e tanti altri. Chi più di tutti ti ha lasciato qualcosa e ricordi in modo particolare?
R: «L’esperienza dei film americani è stata forte e mitica ma io ho amato i miei registi: Sandro Baldoni, Mazzacurati, Soldini, Gennaro Nunziante… ecc. I registi mi piacciono e nel mondo di quel film hanno il ruolo di Dio: loro decidono la storia, gli eventi, il personaggio, la vita e la morte e il bello dell’attore è scoprire quali e quante possibilità prima inimmaginate, ci siano per rendere credibile una storia, un personaggio, un’azione. Lo stupore è la parola giusta che vale per tutti e non solo per lo spettatore, dopo, ma soprattutto per l’attore e il regista durante il lavoro».
D: Tra i tanti ruoli interpretati, quale quello più affine alla tua personalità; viceversa quale quello totalmente distante dal tuo essere?
R: «Ripeto: i personaggi a me affini non li amo. Sono solo più comodi ma non vale! Io amo i personaggi il più lontano possibile da me. Io non credo alle interviste quando l’attore o attrice dice: “ho trovato molto vicino a me il personaggio”. Non è questo che si chiede ad un attore. Ricordo un aneddoto, un grande regista fece un provino ad una giovane attrice per un personaggio della prossima commedia da mettere in scena. L’attrice era un astro nascente e diede il meglio di se in una prova elevatissima uscendone esausta ma felice. Tuttavia il regista le disse che non l’avrebbe presa. Sbigottimento dell’attrice e dei presenti. “Ma perché?”. “Signorina” le disse il regista, “io ora so molte cose su di lei ma non so ancora nulla sul personaggio che lei dovrebbe interpretare…”».
D: Più di cinquanta film girati: in quale si è visto il miglior Ivano Marescotti di sempre?
R: «Diciamo più di 70-80 film. Ma questo lo lascio giudicare agli altri. Io quando recito, che sia per Ridley Scott o per un corto di un regista sconosciuto, ci metto sempre lo stesso impegno».
D: In occasione dei due film “Cado dalle nubi” e “Che bella giornata” hai avuto modo di lavorare con un nostro conterraneo, Checco Zalone. Quale la tua impressione sulla Puglia e il pugliese e quindi il Sud Italia tutto, visto tra l’altro che in uno dei due film hai impersonato la figura del leghista?
R: «Ecco, quel leghista, mille miglia lontano da me come personaggio e come mentalità politica è stato uno dei più amati e divertenti da fare. Tuttavia io lui ho cercato di capirlo e di realizzare la sua identità come sincera e specchio della sua anima sofferente. Credo infatti che ognuno, anche i peggiori personaggi , vadano analizzati e cercati come un mondo reale e vero. Se no come potrei fare un assassino o il cattivo se non cercassi la loro verità e realtà? In definitiva renderlo credibile».
D: Dopo trent’anni di carriera spesso si cade nella tentazione di tirare un po’ di somme: tirando la linea del totale manca qualcosa alla tua carriera? La cosa di cui vai più fiero e il più grande rimpianto?
R: «No, non manca nulla. Come attore quando cominciai al massimo speravo di essere assunto in una compagnia di burattinai o teatro per ragazzi che ho fatto a lungo e amato. Invece mi sono trovato a lavorare con i grandi registi internazionali e attori mitici. Che desiderare di più in quel campo…? Forse anzi sarebbe anche ora di smettere e inventarmi una cosa nuova da fare. Aspetto il caso…».
D: Dunque Ivano, quali i prossimi impegni in cui ti vedremo protagonista?
R:«Alcune fiction per la Rai nei prossimi mesi che sto girando e ultimando in questi giorni… e la tournée teatrale con “La Fondazione” a cui tengo parecchio. Poi… il caso, si vedrà. Del resto tutti gli attori, o la maggior parte degli attori sono affidati al caso. Aspettano che qualcuno, un produttore o un regista, a Roma o altrove, dica: … “e che ne diresti di costui per questo ruolo?” e chiami il tuo agente. E l’attore è sempre lì, in attesa della telefonata».