di Francesco Greco. ROMA – “Eccomi qua…”. Manuel Fiorentini si estrania dal pubblico, irrompe in scena. L’arredo è scarno, quinte dipinte di nero. Le luci esigue. Tutto pare acconciato per una seduta psicoanalitica, una confidenza implacabile con se stessi, il proprio io più segreto, lo stagno di Narciso che svela ciò che non vogliamo vedere, il rimosso quotidiano, il tragico e l’ilare, il compromesso e il pudore: la polvere sotto al tappeto.
“Sul palcoscenico ho l’impressione di vedere i miei conflitti interiori…”: è la premessa del monologo “Il regista in scena”, di Giuliano Vasilicò (in foto al Teatroinscatola, Roma). E continua: “…che il teatro possa penetrare nel cuore dell’uomo… Il palcoscenico è un organismo vivente… ”. Tratteniamo il respiro: il mistero immortale del teatro si materializza nell’aria. Dalle corifee di Euripide al Carro di Tespi sino alle cantine dell’underground e il teatro del “No” passando per la destrutturazione di Carmelo Bene, il pathos è intatto, si rinnova ogni sera dove c’è un attore, un palco, parole scritte, qualcuno disposto ad ascoltare.
L’anima oscura dell’arte scenica è tutta qui. I suoi archetipi da sempre si rinnovano come gemme a primavera, la koinè reinventata e la magia prende corpo. Succede anche stasera, con questo “vecchio” (di 37 anni fa) testo del maestro Vasilicò (Fiorentini ha 3 ruoli: regista, aiuto-regista, spettatore), che ha speso una vita nella ricerca dell’inafferrabile, quella sintesi inspiegabile, immaginifica, magmatica che unisce, emoziona in profondità attori, autori, pubblico. Su su fino alla poesia che mette addosso i brividi, commuove.
Domanda: Maestro, Fiorentini è il suo alter-ego?
Risposta: “E’ un altro modo di essere Vasilicò (lo spettacolo è stato interpretato da me nel 1997 e 1998). Nel primo incontro con lui nel 2012 è subito scattata una piena comprensione riguardo alle intenzioni del testo, e su come farle giungere agli spettatori. Manuel, durante le prove, ha fatto subito sue queste intenzioni nonostante le grandi differenze psicofisiche che distinguono i due interpreti. Questa capacità è per me decisiva”.
D. Cosa significa "teatro di ricerca"?
R. “Penso che ciascun ricercatore abbia il suo modo di fare ricerca. Per quanto mi riguarda è una forma di work in progress permanente. Lo spettacolo non viene mai considerato definitivamente compiuto in quanto la sua forma e i suoi contenuti dipendono anche dai mutamenti della nostra vita e da quelli del mondo”.
D. Underground, cantina, avanguardie: tutte forme di "ricerca"?
R. “Se chi lavora sotto questa definizione fa veramente ricerca, si può rispondere sì per tutte. Penso che ogni compagnia d'avanguardia abbia il suo modo di fare ricerca, ma per fare veramente parte di questa categoria, occorre il coraggio del rischio, sapendo quante saranno le difficoltà poste dal “sistema” a causa del nostro modo di lavorare, del troppo tempo impiegato per le prove, in quanto ciò che conta per esso è una pronta produzione. Esempi di questa condizione “pericolosa” sono state per me la messa in scena di spettacoli estremamente complessi come quelli ispirati a grandi romanzi (da Marcel Proust a Robert Musil a Oscar Wilde...)”.
D. In questo lungo "viaggio" estetico si sente più vicino a Brecht, a Bene o a Jonesco?
R. “Sotto certi aspetti mi sento sia vicino che lontano a tutti e tre. Vicinissimo per esempio a Ionesco per quanto riguarda il suo “testo nel testo” in cui si rispecchia il mio “teatro nel teatro”; lontanissimo invece da Carmelo Bene, dalle sue geniali “profanazioni” della pagina scritta. Nei miei spettacoli invece cerco sempre di essere fedelissimo specialmente alle motivazioni che hanno spinto l'autore del libro a scrivere. È quel passaggio a volte anche drammatico dalla vita dell'autore al romanzo che io metto in scena. Per quanto riguarda Brecht il numero limitato dei miei spettacoli viene surclassato dalla sua enorme produzione arricchita dalle musiche di Kurt Weill”.
D. Quale la cosa più emozionante incontrata in questo "viaggio nella struttura interna e nei profondi misteri" dell'arte teatrale?
R. “E’ stata rendermi conto che quelle che credevo mie invenzioni sono caratteristiche strutturali di quest'arte. Il teatro sembra quasi in attesa di qualcuno che questi suoi doni voglia veramente riceverli”.
D. Lei sostiene che il suo spettacolo fa emergere le potenzialità del teatro e i suoi riflessi sulla vita: quali quelli più coinvolgenti?
R. “Quelli che ci mostrano in scena, incarnati da attori e davanti a noi i nostri combattimenti interiori, dando così corpo all'invisibile e permettendoci a volte di comprendere meglio questi nostri intimi conflitti e di arrivare a soluzioni. Ma il passo più avanzato e pericoloso è certamente quello della “prova della morte” vissuta, tramite una forte immedesimazione, quasi come se fosse vera. Un'esperienza che se troppo forzata potrebbe portare a qualche complicazione, ma che può anche aprire varchi nel cuore dell'uomo e predisporlo alla considerazione di realtà mai affrontate prima quali l'assoluto, la trascendenza...”.
D. Lei teorizza la vitalità filologica e ontologica delle componenti del teatro, anche quelle, come dire, scenografiche: "il palcoscenico – dice- parla, ama, gioisce, attira o respinge come un essere umano": in che modo il pubblico, ogni tipo di pubblico può cogliere questo stato di grazia intimo, sfuggente?
R. “Provandolo direttamente dal vivo, partecipando ad esempio a laboratori in cui vengono affrontati questi temi e in cui ci si inoltra nel retro-scena della creazione teatrale, improvvisando e vivendo personalmente queste magie. Negli anni '70, ad assistere ai miei laboratori in preparazione ai miei spettacoli, venivano anche spettatori particolari quali Alberto Moravia, Dacia Maraini, Rodolfo Wilcock e altri”.
D. "Orrori o meraviglie" nei sotterranei dell'arte teatrale, un livello carsico immediatamente percepibile solo se lo si voglia: come disporsi a farsene contaminare?
R. “Per essere iniziati a questa sensibilità, non c'è altra via che quella dell'attore che si immedesima in un'esperienza-limite, o anche di uno spettatore coinvolto e partecipante”.
D. E dunque il palcoscenico ha coscienza e memoria: in che modo può interagire con la nostra quotidianità, sollevandoci dalle umani miserie?
R. “L'immedesimazione dev'essere una fortissima partecipazione emotiva sul confine tra finzione e realtà, da parte degli attori e/o di spettatori coinvolti. Il contatto con l'idea di infinito può portarci a considerare la realtà spirituale, a tener conto di essa e forse ad avvicinarsi alla fede”.
D. C'è anche una chiave psicanalitica nel testo?
R. “Lo spettacolo “Il regista un scena” si può leggere anche da questo punto di vista. L'attore che nella parte dello spettatore entra in platea per assistere allo spettacolo, cerca nell'arte teatrale una risposta riguardante i suoi turbamenti. È innamorato del teatro perché quest'arte gli permette di vedere davanti a sé, incarnati da attori, i suoi conflitti più intimi, ricavandone a volte chiarificazioni come in una seduta psicoanalitica. Nelle scene seguenti comincia qualcosa che assomiglia ad una cura. L'attore avanza lentamente sul palcoscenico come nell'infinito del proprio io, cercando di dare risposte su se stesso. Anche la parte dello spettacolo relativa all'Amleto di Shakespeare ha una chiave psicoanalitica: il nostro Amleto è come innamorato della madre e geloso del padre ed è come se fosse stato lui a ucciderlo... Nella scena finale lo spettatore dell'inizio ricompare soddisfatto quasi come dopo una cura che ha avuto buon esito. La sua felicità deriva dalla scoperta che anche gli spettatori a teatro possono far parte di questa guarigione, una partecipazione di cui sentiva molto il bisogno, non solo a teatro ma anche nella vita vera. (Se è così – riflette - posso essere utile anche io, no?)”.
“Sul palcoscenico ho l’impressione di vedere i miei conflitti interiori…”: è la premessa del monologo “Il regista in scena”, di Giuliano Vasilicò (in foto al Teatroinscatola, Roma). E continua: “…che il teatro possa penetrare nel cuore dell’uomo… Il palcoscenico è un organismo vivente… ”. Tratteniamo il respiro: il mistero immortale del teatro si materializza nell’aria. Dalle corifee di Euripide al Carro di Tespi sino alle cantine dell’underground e il teatro del “No” passando per la destrutturazione di Carmelo Bene, il pathos è intatto, si rinnova ogni sera dove c’è un attore, un palco, parole scritte, qualcuno disposto ad ascoltare.
L’anima oscura dell’arte scenica è tutta qui. I suoi archetipi da sempre si rinnovano come gemme a primavera, la koinè reinventata e la magia prende corpo. Succede anche stasera, con questo “vecchio” (di 37 anni fa) testo del maestro Vasilicò (Fiorentini ha 3 ruoli: regista, aiuto-regista, spettatore), che ha speso una vita nella ricerca dell’inafferrabile, quella sintesi inspiegabile, immaginifica, magmatica che unisce, emoziona in profondità attori, autori, pubblico. Su su fino alla poesia che mette addosso i brividi, commuove.
Domanda: Maestro, Fiorentini è il suo alter-ego?
Risposta: “E’ un altro modo di essere Vasilicò (lo spettacolo è stato interpretato da me nel 1997 e 1998). Nel primo incontro con lui nel 2012 è subito scattata una piena comprensione riguardo alle intenzioni del testo, e su come farle giungere agli spettatori. Manuel, durante le prove, ha fatto subito sue queste intenzioni nonostante le grandi differenze psicofisiche che distinguono i due interpreti. Questa capacità è per me decisiva”.
D. Cosa significa "teatro di ricerca"?
R. “Penso che ciascun ricercatore abbia il suo modo di fare ricerca. Per quanto mi riguarda è una forma di work in progress permanente. Lo spettacolo non viene mai considerato definitivamente compiuto in quanto la sua forma e i suoi contenuti dipendono anche dai mutamenti della nostra vita e da quelli del mondo”.
D. Underground, cantina, avanguardie: tutte forme di "ricerca"?
R. “Se chi lavora sotto questa definizione fa veramente ricerca, si può rispondere sì per tutte. Penso che ogni compagnia d'avanguardia abbia il suo modo di fare ricerca, ma per fare veramente parte di questa categoria, occorre il coraggio del rischio, sapendo quante saranno le difficoltà poste dal “sistema” a causa del nostro modo di lavorare, del troppo tempo impiegato per le prove, in quanto ciò che conta per esso è una pronta produzione. Esempi di questa condizione “pericolosa” sono state per me la messa in scena di spettacoli estremamente complessi come quelli ispirati a grandi romanzi (da Marcel Proust a Robert Musil a Oscar Wilde...)”.
D. In questo lungo "viaggio" estetico si sente più vicino a Brecht, a Bene o a Jonesco?
R. “Sotto certi aspetti mi sento sia vicino che lontano a tutti e tre. Vicinissimo per esempio a Ionesco per quanto riguarda il suo “testo nel testo” in cui si rispecchia il mio “teatro nel teatro”; lontanissimo invece da Carmelo Bene, dalle sue geniali “profanazioni” della pagina scritta. Nei miei spettacoli invece cerco sempre di essere fedelissimo specialmente alle motivazioni che hanno spinto l'autore del libro a scrivere. È quel passaggio a volte anche drammatico dalla vita dell'autore al romanzo che io metto in scena. Per quanto riguarda Brecht il numero limitato dei miei spettacoli viene surclassato dalla sua enorme produzione arricchita dalle musiche di Kurt Weill”.
D. Quale la cosa più emozionante incontrata in questo "viaggio nella struttura interna e nei profondi misteri" dell'arte teatrale?
R. “E’ stata rendermi conto che quelle che credevo mie invenzioni sono caratteristiche strutturali di quest'arte. Il teatro sembra quasi in attesa di qualcuno che questi suoi doni voglia veramente riceverli”.
D. Lei sostiene che il suo spettacolo fa emergere le potenzialità del teatro e i suoi riflessi sulla vita: quali quelli più coinvolgenti?
R. “Quelli che ci mostrano in scena, incarnati da attori e davanti a noi i nostri combattimenti interiori, dando così corpo all'invisibile e permettendoci a volte di comprendere meglio questi nostri intimi conflitti e di arrivare a soluzioni. Ma il passo più avanzato e pericoloso è certamente quello della “prova della morte” vissuta, tramite una forte immedesimazione, quasi come se fosse vera. Un'esperienza che se troppo forzata potrebbe portare a qualche complicazione, ma che può anche aprire varchi nel cuore dell'uomo e predisporlo alla considerazione di realtà mai affrontate prima quali l'assoluto, la trascendenza...”.
D. Lei teorizza la vitalità filologica e ontologica delle componenti del teatro, anche quelle, come dire, scenografiche: "il palcoscenico – dice- parla, ama, gioisce, attira o respinge come un essere umano": in che modo il pubblico, ogni tipo di pubblico può cogliere questo stato di grazia intimo, sfuggente?
R. “Provandolo direttamente dal vivo, partecipando ad esempio a laboratori in cui vengono affrontati questi temi e in cui ci si inoltra nel retro-scena della creazione teatrale, improvvisando e vivendo personalmente queste magie. Negli anni '70, ad assistere ai miei laboratori in preparazione ai miei spettacoli, venivano anche spettatori particolari quali Alberto Moravia, Dacia Maraini, Rodolfo Wilcock e altri”.
D. "Orrori o meraviglie" nei sotterranei dell'arte teatrale, un livello carsico immediatamente percepibile solo se lo si voglia: come disporsi a farsene contaminare?
R. “Per essere iniziati a questa sensibilità, non c'è altra via che quella dell'attore che si immedesima in un'esperienza-limite, o anche di uno spettatore coinvolto e partecipante”.
D. E dunque il palcoscenico ha coscienza e memoria: in che modo può interagire con la nostra quotidianità, sollevandoci dalle umani miserie?
R. “L'immedesimazione dev'essere una fortissima partecipazione emotiva sul confine tra finzione e realtà, da parte degli attori e/o di spettatori coinvolti. Il contatto con l'idea di infinito può portarci a considerare la realtà spirituale, a tener conto di essa e forse ad avvicinarsi alla fede”.
D. C'è anche una chiave psicanalitica nel testo?
R. “Lo spettacolo “Il regista un scena” si può leggere anche da questo punto di vista. L'attore che nella parte dello spettatore entra in platea per assistere allo spettacolo, cerca nell'arte teatrale una risposta riguardante i suoi turbamenti. È innamorato del teatro perché quest'arte gli permette di vedere davanti a sé, incarnati da attori, i suoi conflitti più intimi, ricavandone a volte chiarificazioni come in una seduta psicoanalitica. Nelle scene seguenti comincia qualcosa che assomiglia ad una cura. L'attore avanza lentamente sul palcoscenico come nell'infinito del proprio io, cercando di dare risposte su se stesso. Anche la parte dello spettacolo relativa all'Amleto di Shakespeare ha una chiave psicoanalitica: il nostro Amleto è come innamorato della madre e geloso del padre ed è come se fosse stato lui a ucciderlo... Nella scena finale lo spettatore dell'inizio ricompare soddisfatto quasi come dopo una cura che ha avuto buon esito. La sua felicità deriva dalla scoperta che anche gli spettatori a teatro possono far parte di questa guarigione, una partecipazione di cui sentiva molto il bisogno, non solo a teatro ma anche nella vita vera. (Se è così – riflette - posso essere utile anche io, no?)”.