BARI - Ha diritto ad essere risarcito sia del danno biologico, che di quello morale ed esistenziale il lavoratore privato ingiustamente di tutte le sue mansioni. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 16413 depositata lo scorso 28 giugno che ha anche precisato che nella fattispecie non sussiste alcuna duplicazione del ristoro in quanto il pregiudizio riguarda diversi aspetti ed in particolare: l’immagine professionale, la salute psicofisica e la sofferenza interiore.
I giudici della Suprema Corte, nel caso in questione hanno respinto il ricorso di un’azienda che aveva alle sue dipendenze un lavoratore che, trasferito presso un’altra sede, era stato privato di ogni incarico lavorativo e completamente isolato, tanto da ammalarsi di depressione.
La società aveva impugnato la decisione della Corte d’Appello di Lecce che aveva a sua volta confermato la precedente sentenza del tribunale di Taranto che aveva riconosciuto la sussistenza sia del danno biologico nella misura del 35% (oltre 80mila euro) che di quello morale nonché di quello esistenziale (quantificati in più di 15mila euro). Il datore di lavoro aveva proposto ricorso davanti ai giudici di legittimità ribadendo che la corte di merito non aveva attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività non era addebitabile a una scelta volontaria della società , ma era piuttosto l'effetto di ragioni tecnico produttive obiettive, fatte nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la posizione lavorativa del lavoratore a Taranto.
Ma i giudici del Palazzaccio non hanno ritenuto fondate le doglianze dell’azienda ed hanno ribadito le necessità di integrale tutela del lavoratore.
Ricordano gli Ermellini che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato o sia stato erroneamente sottostimato, “rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice”. Si ha, quindi, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi. In altri termini, non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitorie hanno distintamente riguardato il danno biologico (inteso come mera lesione della integrità psicofisica), il danno morale (inteso come sofferenza interiore temporanea causata dalla commissione di un fatto illecito), il danno esistenziale (inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all'immagine del dipendente sul luogo di lavoro).
Per Giovanni D'Agata, presidente e fondatore dell’associazione “Sportello dei Diritti”, che da anni si batte per la tutela dei lavoratori dai soprusi datoriali, si tratta di un’importante decisione che offre un significativo contributo di riflessione a tutti quei dipendenti che si sentono umiliati nelle loro legittime aspirazioni e diritti, con particolare riferimento a quello di svolgere le mansioni a cui dovrebbero essere assegnati in ragione delle loro capacità e del contratto di lavoro sottoscritto.
I giudici della Suprema Corte, nel caso in questione hanno respinto il ricorso di un’azienda che aveva alle sue dipendenze un lavoratore che, trasferito presso un’altra sede, era stato privato di ogni incarico lavorativo e completamente isolato, tanto da ammalarsi di depressione.
La società aveva impugnato la decisione della Corte d’Appello di Lecce che aveva a sua volta confermato la precedente sentenza del tribunale di Taranto che aveva riconosciuto la sussistenza sia del danno biologico nella misura del 35% (oltre 80mila euro) che di quello morale nonché di quello esistenziale (quantificati in più di 15mila euro). Il datore di lavoro aveva proposto ricorso davanti ai giudici di legittimità ribadendo che la corte di merito non aveva attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività non era addebitabile a una scelta volontaria della società , ma era piuttosto l'effetto di ragioni tecnico produttive obiettive, fatte nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la posizione lavorativa del lavoratore a Taranto.
Ma i giudici del Palazzaccio non hanno ritenuto fondate le doglianze dell’azienda ed hanno ribadito le necessità di integrale tutela del lavoratore.
Ricordano gli Ermellini che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato o sia stato erroneamente sottostimato, “rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice”. Si ha, quindi, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi. In altri termini, non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitorie hanno distintamente riguardato il danno biologico (inteso come mera lesione della integrità psicofisica), il danno morale (inteso come sofferenza interiore temporanea causata dalla commissione di un fatto illecito), il danno esistenziale (inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all'immagine del dipendente sul luogo di lavoro).
Per Giovanni D'Agata, presidente e fondatore dell’associazione “Sportello dei Diritti”, che da anni si batte per la tutela dei lavoratori dai soprusi datoriali, si tratta di un’importante decisione che offre un significativo contributo di riflessione a tutti quei dipendenti che si sentono umiliati nelle loro legittime aspirazioni e diritti, con particolare riferimento a quello di svolgere le mansioni a cui dovrebbero essere assegnati in ragione delle loro capacità e del contratto di lavoro sottoscritto.