Dal nostro inviato Francesco Greco
VENEZIA – E’ possibile, al tempo di Internet, la piazza virtuale su cui tutti siamo affacciati e che determina la Storia (basti pensare al ruolo del social network nelle primavere arabe), fare un film in cui adombrare il web come una sorta di volgare tirannia? E ci si può spingere fino a transustanziarlo nel Grande Fratello di George Orwell? E si può, magari a livello di provocazione intellettuale, considerare il mouse con cui ci affacciamo su queste piazze metafisiche, citazioni di De Chirico, lo strumento con cui ci omologhiamo, come persone e luoghi, ci livelliamo, diventando dei cloni?
Il cinema di Terry Gilliam è sempre stato “politico”: dall’opera prima “Brazil” a questa presentata a Venezia, “The zero theorem” interpretata dalla bellissima Mélanie Thierry e girato in Romania perché all’Est costa quattro volte meno e le troupe lavorano anche nel weekend. Una favola amara contro un feticcio della modernità in cui siamo immersi come in una sorta di liquido amniotico: la virtualità. Una storia ben raccontata, grazie anche a una possente sceneggiatura firmata da Pat Rushin.
In conferenza-stampa il regista ha spiegato com’è nato il film: “La sceneggiatura mi ha intrigato per le idee esistenziali racchiuse in un racconto filosofico (“la vita è come un virus che infetta la perfezione della morte”: una delle frasi più toste colta nel film). E mi sono domandato che cos’è che dà valore alla vita, cosa ci procura gioia. Si può essere soli nel nostro mondo sempre più connesso e ristretto?”.
La domanda contiene la risposta, ed è il nucleo intimo della storia che Gilliam racconta. Una fine speculazione contro la scienza e la tecnologia, ma anche la comunicazione (lui, da cineasta indipendente, dissacrante, le chiama Corporation) che partendo da un input condiviso, migliorare la qualità e le relazioni della nostra vita, finiscono col limitare le nostre
scelte, castrando il libero arbitrio: il Grande Fratello orwelliano.
Si potrebbe indovinare una punta di snobismo tutto anglosassone (Gilliam è un americano che vive nel Regno Unito) in tutto ciò (e proprio questa dimensione potrebbe intrigare la giuria: il film potrebbe uscire vincitore dal Lido). E tuttavia, che le nuove tecnologie telematiche abbiamo modificato la nostra vita, al punto che non le gestiamo più e forse si stanno rivoltando contro è una riflessione come dire solare, quasi una ovvietà. “Il futuro ci ha resi tutti prigionieri”, chiosa il regista bevendo l’aperitivo seduto sotto i gazebo dell’Excelsior mentre guarda le ragazze cinesi fare il bagno a tutte le ore e dal piano-bar arrivano vecchie cover anni ‘60. “Sappiamo tutto oggi ma conosciamo sempre di meno…”. Un sospetto che ci era venuto, che il regista ci conferma. Il web in sostanza diffonde una subcultura di massa, chiamiamola pure ignoranza trasversale: basti dire che parliamo con meno parole, la nostra affabulazione quotidiana si desertifica.
“Oggi, chi fa troppe domande è visto male e rischia di perdere il lavoro… Ormai per essere accettati occorre essere simili a un dio…”, aggiunge. La sera è ancora lontana ma un rivolo di gelo ci corre nelle spalle. Arriva la protagonista del film: “Non ho profili Facebook e non sto su Twitter…”, confida dolcemente Mélanie Thierry che ha bellissimi occhi azzurri. Magari sarà il trend dei prossimi anni: fuga dal web, dai social network (soggetto per un altro film). Riflette ancora Gilliam: “Le fedi del passato non funzionano più: oggi la sola fede accettata è la tecnologia e il pc è un’arma ambigua…”.
A questo punto guardiamo con sospetto il pc su cui stiamo scrivendo questo pezzo vicino a Cà Foscari. Ci distrae dalla tentazione di buttarlo in mare la compilation di lucchetti attaccati al ponte (un asiatico li vende a 5 €). Per oggi è salvo, domani è un altro giorno, si vedrà…
VENEZIA – E’ possibile, al tempo di Internet, la piazza virtuale su cui tutti siamo affacciati e che determina la Storia (basti pensare al ruolo del social network nelle primavere arabe), fare un film in cui adombrare il web come una sorta di volgare tirannia? E ci si può spingere fino a transustanziarlo nel Grande Fratello di George Orwell? E si può, magari a livello di provocazione intellettuale, considerare il mouse con cui ci affacciamo su queste piazze metafisiche, citazioni di De Chirico, lo strumento con cui ci omologhiamo, come persone e luoghi, ci livelliamo, diventando dei cloni?
Il cinema di Terry Gilliam è sempre stato “politico”: dall’opera prima “Brazil” a questa presentata a Venezia, “The zero theorem” interpretata dalla bellissima Mélanie Thierry e girato in Romania perché all’Est costa quattro volte meno e le troupe lavorano anche nel weekend. Una favola amara contro un feticcio della modernità in cui siamo immersi come in una sorta di liquido amniotico: la virtualità. Una storia ben raccontata, grazie anche a una possente sceneggiatura firmata da Pat Rushin.
In conferenza-stampa il regista ha spiegato com’è nato il film: “La sceneggiatura mi ha intrigato per le idee esistenziali racchiuse in un racconto filosofico (“la vita è come un virus che infetta la perfezione della morte”: una delle frasi più toste colta nel film). E mi sono domandato che cos’è che dà valore alla vita, cosa ci procura gioia. Si può essere soli nel nostro mondo sempre più connesso e ristretto?”.
La domanda contiene la risposta, ed è il nucleo intimo della storia che Gilliam racconta. Una fine speculazione contro la scienza e la tecnologia, ma anche la comunicazione (lui, da cineasta indipendente, dissacrante, le chiama Corporation) che partendo da un input condiviso, migliorare la qualità e le relazioni della nostra vita, finiscono col limitare le nostre
scelte, castrando il libero arbitrio: il Grande Fratello orwelliano.
Si potrebbe indovinare una punta di snobismo tutto anglosassone (Gilliam è un americano che vive nel Regno Unito) in tutto ciò (e proprio questa dimensione potrebbe intrigare la giuria: il film potrebbe uscire vincitore dal Lido). E tuttavia, che le nuove tecnologie telematiche abbiamo modificato la nostra vita, al punto che non le gestiamo più e forse si stanno rivoltando contro è una riflessione come dire solare, quasi una ovvietà. “Il futuro ci ha resi tutti prigionieri”, chiosa il regista bevendo l’aperitivo seduto sotto i gazebo dell’Excelsior mentre guarda le ragazze cinesi fare il bagno a tutte le ore e dal piano-bar arrivano vecchie cover anni ‘60. “Sappiamo tutto oggi ma conosciamo sempre di meno…”. Un sospetto che ci era venuto, che il regista ci conferma. Il web in sostanza diffonde una subcultura di massa, chiamiamola pure ignoranza trasversale: basti dire che parliamo con meno parole, la nostra affabulazione quotidiana si desertifica.
“Oggi, chi fa troppe domande è visto male e rischia di perdere il lavoro… Ormai per essere accettati occorre essere simili a un dio…”, aggiunge. La sera è ancora lontana ma un rivolo di gelo ci corre nelle spalle. Arriva la protagonista del film: “Non ho profili Facebook e non sto su Twitter…”, confida dolcemente Mélanie Thierry che ha bellissimi occhi azzurri. Magari sarà il trend dei prossimi anni: fuga dal web, dai social network (soggetto per un altro film). Riflette ancora Gilliam: “Le fedi del passato non funzionano più: oggi la sola fede accettata è la tecnologia e il pc è un’arma ambigua…”.
A questo punto guardiamo con sospetto il pc su cui stiamo scrivendo questo pezzo vicino a Cà Foscari. Ci distrae dalla tentazione di buttarlo in mare la compilation di lucchetti attaccati al ponte (un asiatico li vende a 5 €). Per oggi è salvo, domani è un altro giorno, si vedrà…