Kvitka, dalla “sua” natura ai cubi che raccontano le storie

di Francesco Greco.
LECCE – Dalla natura selvaggia della sua terra, la Lettonia, ai cubi trasparenti con cui racconta la storia della terra che l’ha adottata e che ama profondamente: il Salento meridionale. E’ il percorso artistico-estetico della pittrice Kristine Kvitka, che vive a Tricase (Lecce) ormai da qualche anno dopo un periodo all’Accademia di Belle Arti di Lecce. “Light Cube” è il titolo del progetto vincitore del bando di idee “A. C. A. I. T. – Scuola di occupazione” di Liquilab (Bottega di memorie e identità giovanili), che diventa anche quello della proposta di installazioni e quadri dell’artista (si inaugura stasera alle 20. 00, si può visitare dal 22 al 28 a “Equilab”, Piazzetta Dell’Abate).

   Appena 3 mesi fa (giugno, Palazzo Gallone) propose le sue ultime opere sotto il titolo “I codici della natura”. Motivando così i suoi input creativi: “Ho sempre creduto che non ci fosse più grande e al contempo semplice fonte di ispirazione della natura, dove si può trovare di tutto: basta solo saper cercare. Il mio paesaggio è come un vecchio album di ricordi dove ogni collina è un simbolo, l’acqua dei fiumi è limpida e le stelle luminose e lucenti anche di giorno. La terra può essere coperta di neve, ma gli alberi sembrano desiderare una stagione diversa e si decorano con sudari trasparenti e di color rosso sangue”.
 
Ora ha metabolizzato dentro di sé il paesaggio del Salento nelle sue facce e le storie che ha sentito raccontare, l’oralità popolare che trasfigura archetipi millenari e che scorre nel dna degli uomini e la terra. E così continua la sua ricerca su un doppio livello: la natura in cui è immersa, paesaggi naturali e urbani, ulivi secolari, mandorli in fiore, il diluvio luci delle feste dei Santi, il mare con le sue spiagge abbaglianti e le ispide scogliere, la Quercia Vallonea, ecc. E le storie del Salento contadino e autarchico che fa raccontare all’A .C. A. I. T. (l’ex Azienda Cooperativa Agricola e Industriale di Tricase) che, muto testimone, ne ha ascoltate tante e ora ha deciso di donarle alle nuove generazioni affinché non solo non vadano perdute nelal Babele della modernità ma siano incardinate nella memoria, e che sono narrate sui pannelli trasparenti dei cubi di Kristine: un viaggio nelle radici, l’identità, un commuovente “come eravamo”.
 
“L’ex  fabbrica di tabacco che per anni è rimasta vuota e dimenticata, ma che è  simbolo di memoria e unità – spiega la pittrice nata a Riga - è questo il tema del progetto Light Cube, un’installazione artistica composta da 6 cubi (in tutto 30 pannelli dipinti), che propone un viaggio immaginario tra passato, presente e futuro, seguendo un filo invisibile che li tiene legati. Il legame è così forte che il passaggio logico da un cubo all’altro non mai è netto, e in ognuno di essi i tre periodi sono spesso compresenti o si richiamano l’uno all’altro. Tutto il viaggio è rischiarato dalla luce, simbolo di speranza”.

DOMANDA: Come nasce ‘idea di questa performance? 
RISPOSTA: “Mi sono ispirata a storie ascoltate, lette nei libri o viste in vecchie fotografie. il primo cubo è dedicato all’A.C.A.I.T.  del passato, quando era un posto vivo e importante per l’economia della città. Sono rappresentate le donne dedite alla lavorazione del tabacco nella sala grande dell’opificio. L’una affianco all’altra, legate spesso anche da profonda amicizia, condividevano segreti e gioie, ma anche  dolori e preoccupazioni: la vita sacrificata a un lavoro duro e spesso soggetto a un controllo dispotico, gli scioperi e le manifestazioni di protesta culminate con 5 vittime.  Ad una di queste, Pietro Panarese, il ragazzino di soli 15 anni divenuto forse il simbolo delle morti di quegli anni, è dedicata una delle lastre del cubo”.

D. La città che lei ama dunque colta sospesa fra passato e presente…
R. “Nell’opera è raffigurata un’antica insegna di una tabaccheria, che è rimasta immutata nel tempo e ritroviamo tale e quale ai giorni nostri. Viene da pensare che, sebbene a Tricase il tabacco non si produca più, in molti Paesi del mondo, quelli più poveri, le condizioni dei lavoratori siano le stesse delle tabacchine di allora, nell’altro secolo”.

D. Nel secondo cubo osserva il tabacco mentre è ancora sulla pianta, al campo…
R. “Mostra il ciclo di lavorazione prima del suo arrivo al tabacchificio. Uomini e donne, ma anche bambini, ne raccoglievano le foglie e le mettevano al sole ad essiccare. Prima verde, poi gialla e infine marrone, la foglia cambia colore e da semplice pianta diventa un prodotto finito, che, oggi come allora, attrae ingenti interessi economici. Ma i tempi cambiano e quegli interessi che hanno dato lavoro a molte famiglie tricasine, ora si sono spostati verso posti dove il costo della manodopera è più basso”.

D. Il suo è un racconto, oltre che estetico, anche sociale, contiene una denuncia politica. Non ha trascurato, ovvio, la musica di quel tempo… 
R. “Infatti il terzo e il quarto cubo sono uniti dalla musica, forse l’unica cosa che siamo riusciti a conservare di quei tempi. Dalla taranta, il ballo popolare che, secondo la tradizione, veniva praticato per smaltire il veleno del ragno che mordeva le donne che lavoravano nei campi durante la raccolta del tabacco, ai canti popolari che le tabacchine cantavano per allietare le dure giornate in fabbrica, la musica ricopriva un ruolo importante nella loro vita. Un’eredità culturale sopravvissuta al progresso, che troppo spesso, come una spugna, cancella il passato. E’ questo il tratto d’unione tra passato e presente. Nel terzo cubo sono rappresentati inoltre i ritratti di alcune  tabacchine realmente esistite, un omaggio alle loro persone”.

D. Anche il quinto cubo racconta il passato attraverso i mestieri quasi estinti…
R. “E’ dedicato ad altre attività del presente che in qualche modo raccolgono l’eredità di un passato sempre più dimenticato, quelle attività artigianali che sfruttano ancora tecniche antiche. In quest’opera è forte la simbologia delle mani, presenti in ogni pannello: mani che modellano la ceramica, che creano oggetti di uso comune, che fanno la pasta. In un tempo in cui la macchina ha sostituito l’uomo, c’è gente che usa ancora le proprie mani per lavorare. Un altro simbolo presente è quello il gallo, simbolo della città, che compare su molti oggetti in ceramica”.

D. Il futuro ha un cuore antico e conoscere il passato serve a pensarlo: quale sarà?
R. “E’ il tema del sesto cubo, con particolare riferimento all’A.C.A.I.T., a come potrebbe essere utilizzato per ridare alla struttura nuovo lustro. Uno spazio enorme, di grande importanza storica, simbolo del passato di Tricase, della sua gente. Sarebbe bello che tornasse a disposizione dei cittadini, per dare nuovo slancio culturale a una città cresciuta molto negli scorsi decenni, ma forse un po’ carente di spazi pubblici per manifestazioni di tipo culturale: mostre, esposizioni, teatro, laboratori artistici, lezioni, luogo d’incontro per dibattiti e scambi di idee, progetti vari. Un posto multifunzionale che dia la possibilità ai cittadini, ai giovani, di arricchirsi culturalmente, perché è così che si costruisce il futuro”.

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